MEZZOGIORNO
I Piemontesi studiarono una Guantanamo per i meridionali ribelli.
di MARISA INGROSSO
Per battere il brigantaggio, i piemontesi volevano aprire una «Guantanamo» in cui deportare tutti i meridionali. Le prove sono contenute nei Documenti diplomatici conservati presso l'Archivio storico della Farnesina e scovati dalla «Gazzetta».
Per quasi dieci anni, fino almeno al 1873, il Governo italiano le tentò tutte pur di avere un lembo di terra dalle potenze straniere per internare i meridionali ribelli. Subito chiese agli inglesi di impiantare una colonia di deportazione nel Mar Rosso. Trovando però le prime difficoltà, il 16 settembre 1868, il presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Luigi Federico Menabrea, si rivolse al ministro a Buenos Aires, della Croce, perché sondasse la disponibilità del Governo argentino a cedere l'uso di un'area «nelle regioni dell'America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come limite fra i territori dell'Argentina e le regioni deserte della Patagonia».
Secondo Menabrea (che era nato nell'estremo Nord Italia, a Chambéry, oggi in territorio francese), la «Guantanamo dei meridionali» doveva sorgere in terre «interamente disabitate».
Il 10 dicembre di quell'anno, Menabrea diede anche istruzioni all'agente e console generale a Tunisi, Luigi Pinna, di «studiare la possibilità di stabilire in Tunisia una colonia penitenziaria italiana».
Il tentativo fallì per l'opposizione dei tunisini e allora i Piemontesi tornarono alla carica con gli inglesi. Obiettivo: spuntare l'autorizzazione a costruire un carcere per i meridionali sull'isola di Socotra (che è al largo del Corno d'Africa, tra Somalia e Yemen) oppure, quantomeno, avere il loro appoggio affinché l'Olanda concedesse analoga autorizzazione nel Borneo.
Il 3 gennaio 1872 il Governo inglese però fece sapere di non vedere di buon occhio il progetto piemontese di fare «uno stabilimento penitenziario» nel «Borneo o in un altro territorio dei lontani mari». E il 3 maggio, il lombardo Carlo Cadorna, ministro a Londra, scrisse al ministro degli Esteri, Emilio Visconti Venosta (milanese e mazziniano della prima ora), che era stata bocciata «la richiesta italiana di acquistare l'isola di Socotra come colonia penitenziaria».
Il 20 dicembre di quell'anno anche l'Olanda espresse i suoi timori: i deportati meridionali avrebbero potuto evadere mettendo a rischio i suoi possedimenti nel Borneo.
Intanto, le carceri dell'Italia Unita traboccavano di meridionali e i briganti continuavano a combattere. L'11 settembre 1872, il Times pubblicò una lettera giunta da Napoli che metteva in luce la recrudescenza del brigantaggio in Italia. Il Times ci aggiunse un articolo di fondo in cui non si risparmiavano sferzate ai Piemontesi per l'incapacità di «eradicare completamente una così grave piaga».
Convinto che la paura della deportazione in terre lontane avrebbe spaventato i meridionali più di qualunque tortura e perfino della morte, il ministro degli Esteri, Visconti Venosta, decise di mettere alle strette gli inglesi. Il 19 dicembre 1872, a Roma, incontrò il ministro d'Inghilterra Sir Bartle Frere e gli parlò chiaro. Il suo discorso è ancora agli atti, negli Archivi della Farnesina. Disse: «Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un'implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l'opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti».
«Bisogna dunque pensare - disse il ministro della neonata Italia - ad aggiungere alla pena di morte un'altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti all'idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo».
Sir Bartle Frere prese tempo ma i piemontesi non si arresero. È del 3 gennaio 1873 un documento confidenziale in cui Cadorna ragguaglia Visconti Venosta sul colloquio avuto col Conte Granville relativamente alla «cessione di una parte della Costa Nord Est dell'isola di Borneo». Il rappresentante del Governo italiano disse al ministro degli Esteri inglese che i briganti «avvezzi a mettere la loro vita in pericolo, resi più feroci dalla stessa lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo per le popolazioni!). Invece la fantasia fervida, immaginosa di quelle popolazioni rende ad essi ed alle loro famiglie terribile la pena della deportazione. In Italia, e massime nel Mezzodì, ove è grande l'attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non vedere più mai il sole natale, la moglie, i figli, di passare, e finire la vita in lontano ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che atterrisce».
Granville però fu irremovibile: l'Inghilterra non avrebbe aiutato l'Italia a deportare i Meridionali.
Ma quanti erano i detenuti del Sud che marcivano nelle galere italiane? Secondo la rivista «Due Sicilie» (bimestrale diretto da Antonio Pagano), un'indicazione si trova in una lettera del savoiardo Menabrea, al ministro della Marina, il nizzardo Augusto Riboty. Menabrea sostiene che sarebbe stato «utile e urgente» trovare «una località dove stabilire una colonia penitenziaria per le molte migliaia di condannati» che popolavano gli stabilimenti carcerari.
E troviamo anche la Marina militare. La Forza armata si prestò ad esplorare una serie di luoghi adatti alla deportazione dei meridionali. Il Borneo e le isole adiacenti, innanzitutto. ma anche - secondo documenti pubblicati da «Due Sicilie» - «l'est dell'Australia».
Fonte: Gazzetta del Mezzogiorno
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martedì 26 gennaio 2010
lunedì 18 gennaio 2010
La resistenza nelle due Sicilie:i briganti e i reazionari
La Resistenza nelle Due Sicilie: i briganti e i ”reazionari”
il cadavere del brigante Antonio Caprariello
Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
“Quelli che hanno chiamato i Piemontesi e che hanno consegnato loro il regno della Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si trovano dovunque”(Journal des Debats, novembre 1860, in una corrispondenza da Napoli)[1].
La mistificazione storica, sopravvissuta fino ad oggi, ha fatto sì che le popolazioni meridionali (contadini, pastori e braccianti da una parte; intellettuali e notabili dall’altra), contrarie a quanto era stato loro imposto con la forza, siano state spogliate delle loro vere motivazioni alla resistenza e marchiate rispettivamente con gli appellativi di”briganti”e”reazionari”; si nascosero con tutti i mezzi le vere ragioni, economiche e ideali, di quella che rimane la più lunga insurrezione dei popoli meridionali contro quello che essi consideravano lo straniero invasore.
Per quanto riguarda i cosiddetti ”briganti” essi furono soprattutto espressione della popolazione rurale (contadini, braccianti e pastori) che si sentì defraudata dal nuovo ordine sociale; scriveva Carlo Dotto de Dauli nel 1877 [2]: ”Il brigante è, nella maggior parte dei casi, un povero agricoltore e pastore di tempra meno fiacca e servile degli altri che si ribella alle ingiustizie e ai soprusi dei potenti e, perduta ogni fiducia nella giustizia dello Stato, si getta alla campagna e cimenta la vita, anelando vendicarsi della Società che lo ridusse a quell’estremo“.
Infatti, dopo l’editto di Garibaldi del 2 giugno 1860, le masse rurali si erano illuse che ”la rivoluzione unitaria italiana” portasse con sé la tanto sospirata divisione delle terre, ma si dovettero ricredere perchè, con l’avvento di Vittorio Emanuele, i comitati liberali, composti da ricchi borghesi ferventi ”unitaristi”, si impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi al patrimonio demaniale, sul quale i contadini e i pastori esercitavano gratuitamente gli usi civici, e lo misero all’asta. In questo modo le terre non infeudate passarono velocemente in loro possesso e ai contadini, defraudati dei loro secolari diritti d’uso (gli usi civici), rimasero due possibilità: ”o brigante o emigrante“; secondo la valutazione dello storico marxista Emilio Sereni il totale degli ettari alienati e venduti in Italia ammonta a 2.565.253: «oltre due milioni e mezzo di ettari di terra, situati per la maggior parte nell'Italia meridionale, nel Lazio e nelle isole».[3]
il brigante Gaetano Manzi
Queste motivazioni ”sociali” furono alla base della rivolta meridionale detta”brigantaggio” e si intersecarono con quelle politiche legittimiste, ”l’amalgama dei due aspetti è sempre dialettico e varia a seconda dei tempi e dei luoghi”[4] ma di solito le prime prevalsero di gran lunga tanto che molti storici considerano il ”brigantaggio” come ”il padre” di tutte le lotte che i contadini del Sud condussero per decenni al fine di ottenere migliori condizioni di vita. ”Dopo il 1860, l’intreccio di brigantaggio e legittimismo borbonico spinge la classe politica unitaria ad individuare nelle province annesse il luogo da cui proviene la più grave minaccia interna all’esistenza del Regno d’Italia e ad assegnarsi la missione di inserire nella nuova compagine statale l’ex Regno napoletano anche a costo di cancellarne l’identità storica”[5]
il brigante Giuseppe Tardio
“Negli anni ’60 del secolo scorso nel Mezzogiorno c’era la guerra, e una guerra feroce, senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincea e retrovia. Dei due eserciti, quello”vero“, con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola militare di Torino se ne stava di presidio nei paesi, isolato come se fosse nel cuore dell’Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili e quasi sempre un figlio o un fratello fra le montagne a tenere testa agli”invasori”. [6] Ogni tanto il presidio veniva a sapere di qualche”reazione agraria”di qualche”ribellione borbonica”e accorreva di zona in zona, sulle poche strade conosciute, a reprimere le rivolte, dai boschi e dalle montagne scendeva allora ad affrontarlo l’esercito silenzioso dei briganti. Nei paesi, infatti, si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli uffici del catasto (“gli eterni nemici nostri” li chiamava il brigante Crocco), nonché i saccheggi delle case dei”galantuomini“, noti come usurpatori delle terre demaniali; si abbattevano gli stemmi sabaudi e le immagini di Vittorio Emanuele e Garibaldi, s’issava il vessillo borbonico e si restauravano nuove effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all’esiliato Francesco II, re delle Due Sicilie. I possidenti scappavano verso le zone presidiate dall’esercito piemontese e quando i bersaglieri rioccupavano i paesi ”reazionari” rientravano con essi; tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia, con l’incendio dei quartieri più poveri e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri: uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, da vestiti fatti di pelli”. ”[7] [spesso i loro cadaveri venivano lasciati insepolti per giorni, come ammonimento] ”I briganti, quando non sono minacciati da vicino dalla truppa, dormono normalmente all’ombra di fronzute quercie, sdraiati a terra alla rinfusa; per guanciale hanno un sasso od una zolla, per coperta il cappotto o il mantello; i fucili sono appoggiati alle piante con le cartucciere appese ai calci. Sul fronte, ai lati, a tergo, tutto all’ingiro della posizione, vedette avanzate vegliano attente, mentre le spie segrete stanno dentro le truppe…a rinforzo delle vedette vi sono i cani, feroci mastini che fiutano la preda…i cavalli pascolano liberi nel folto del bosco. I feriti…sono curati con affetto: le ferite sono lavate con acqua e aceto, i farmaci normalmente usati sono: patate, filacce, fascie, bianco d’uovo, olio di olivo sbattuto e foglie d’erba. Per rancio la banda è ripartita in gruppi ognuno dei quali è presieduto da un caporanciere; sul pendio meno ripido della posizione in luogo possibilmente coperto, perchè il fumo non ci tradisca, si accendono i fuochi; poco lontano i cucinieri sono intenti a scannare capretti, scuoiare maiali, spennare polli e tacchini……i viveri requisiti nelle ricche masserie e spesso nei villaggi con arma alla mano. I denari per la paga vengono forniti dai signori reazionari e liberali, i primi con elargizioni spontanee, i secondi forzatamente con minaccia; in caso di rifiuto, di taglio di piante, incendi, devastazioni ed altri simili danni. La plebe, dalla quale noi tutti eravamo usciti, in generale fu di potente ausilio in tutte le nostre imprese. Cotesto aiuto era conseguenza dell’odio innato del popolo nostro contro i regi funzionari e contro i Piemontesi, causa il modo sprezzante col quale gli ufficiali usavano trattare le popolazioni”[8].
il brigante Giuseppe Petrelli
Una delle tante anime del brigantaggio era la componente religiosa: frati e sacerdoti sono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi, benché spesso scacciati dalle loro sedi come avvenne all’arcivescovo di Napoli, Sisto Riario Sforza, sostengono efficacemente l’insurrezione, promulgando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste provenienti dalla Santa Sede; nel 1861 in 57 su 84 diocesi del Sud i vescovi erano impossibilitati ad esercitare le loro funzioni per l’opposizione del nuovo regime. L’invasore piemontese era considerato un nemico della religione ed il popolo ne aveva prova tangibile nelle numerose profanazioni di luoghi sacri effettuate dai soldati piemontesi, inoltre, il loro re, Vittorio Emanuele, era stato scomunicato da papa Pio IX.
Le classi superiori, a loro volta, non potevano ignorare la sistematica guerra del Regno di Sardegna al potere temporale della Chiesa iniziata nel 1848 con la cacciata dei gesuiti, proseguita con le leggi Siccardi del 1850 che sopprimevano alcuni privilegi ecclesiastici (il diritto di asilo che godevano i luoghi sacri, il foro ecclesiastico che giudicava i religiosi accusati di reati comuni, la censura ecclesiastica), inasprita con la legge per la soppressione di alcuni ordini religiosi del 1855 (e culminata, il 7 luglio del 1866, con l’abolizione di tutti gli ordini e la confisca dei loro beni frutto in gran parte delle donazioni dei credenti; con la legge del 19 giugno 1873 questo provvedimento fu esteso anche a Roma), a questo proposito qualcuno ironizza sul significato vero dell’espressione”Libera Chiesa in libero Stato”.
Sottolinea, inoltre, De Jaco [9] che ”i briganti erano religiosissimi, avevano dei cappellani nelle bande e dei santi protettori per le bandiere (in generale i santi del loro paese di origine), …. si ornavano il collo e i polsi di amuleti, di madonne, di corone, ostie consacrate, santini, la sera recitavano in comune il rosario.”. Spesso, prima della morte, invocavano la Madonna, a loro molto cara, come pure fece, sulla sponda opposta, il milite della guardia nazionale Vitantonio Donateo che per questo ebbe salva la vita:”Quando uno dei briganti che era tornato ferito dal combattimento coi carabinieri, disponeva sulla sorte di noi altri…….dovea essere fucilato io, e mi ordinarono di mettermi colla faccia a terra, il che avendo io fatto, con lo squallore della morte, gridai: ”Madonna del Carmine, aiutami!”ed intesi lo scatto del fucile che non diè fuoco. Allora un brigante disse:”Alzati che tu sei salvo e devi essere veramente devoto alla Madonna del Carmine come ne sono io; le devi fare una gran festa”[10] [il brigante era l’ex sergente borbonico Domenico Pasquale Romano].
il Sergente Romano
Non meno importante fu la ”resistenza non armata“, la resistenza civile, bollata come ”reazionaria”, che si presenta con forme molto articolate e coinvolge tutta la società meridionale del tempo come risulta dagli atti dei processi celebrati dalle corti civili a Napoli; ne offrono testimonianza l’opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della Magistratura che deve subire nei sui membri più prestigiosi delle vere e proprie epurazioni e vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni giuridiche; la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali (già il 19 maggio del 1861, in occasione delle elezioni amministrative, votò a Napoli meno di un terzo degli aventi diritto), il rifiuto della coscrizione obbligatoria, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de' Sivo.
Le numerose pubblicazioni antiunitarie avevano generalmente vita breve perché erano sottoposte a sequestro e i loro autori a minacce fisiche o al carcere, segno evidente che la ”libertà di stampa“, sancita dallo Statuto Albertino, non valeva per la stampa di opposizione ma solo per quella di regime; i redattori di questi giornali passavano di rivista in rivista, a mano a mano che queste chiudevano per forza maggiore, diventando professionisti di un giornalismo militante, semiclandestino e quasi avventuroso; questa pubblicistica di opposizione fu molto attiva per tutti gli anni sessanta, poi la stampa autonomistica ed antiunitaria perse gran parte del suo furore anche a causa della caduta di Roma del 1870.”La libertà di stampa era in realtà una libertà attentamente vigilata con premi per i buoni ed inevitabili castighi per i cattivi…un giornale ben fatto che fosse, era in quegli anni una impresa disastrosa sotto il profilo economico. Le edicole non esistevano: il giornale veniva venduto per abbonamento o presso il tipografo…mille copie erano già una buona tiratura: nel decennio 1861-1871 la tiratura complessiva di tutti i giornali del Regno si aggirava sulle 400.000 copie…la soluzione per far quadrare i conti era molto semplice: ottenere un appalto per la pubblicazione di notizie ufficiali, da parte del Governo, Ministro o Prefetto che fosse…naturalmente occorreva dare qualcosa in cambio, ciò che significava non criticare mai e per nessun motivo l’autorità ed anzi tesserne il più possibile gli elogi, specie quando si trattava di Sua Maestà il Re. La”Gazzetta piemontese”di Torino, ad esempio, ebbe per molti anni vita tranquilla per aver ottenuto l’appalto della pubblicazione dei dibattiti e delle decisioni del Parlamento, che aveva allora sede in Torino.”[11]
Infine ricordiamo la componente legittimista della reazione, il partito borbonico, che pur non raggiungendo l’obiettivo fondamentale di riportare la dinastia legittima sul trono, riuscì per anni ad aggregare quasi tutte le componenti sociali intorno a un sentimento patriottico e nazionale; molti soldati delle milizie borboniche, rifiutando l’arruolamento nel nuovo esercito italiano e il giuramento al nuovo Re, si ponevano l’obiettivo di restaurare Francesco II; spesso essi si davano alla macchia e si univano agli insorgenti perché respinti dalla”società civile“, già prona ai voleri dei conquistatori piemontesi; con loro si aggregarono addirittura ex garibaldini, delusi dalla piega che avevano preso gli avvenimenti.”Ero sergente di Francesco II, ritornato a casa come sbandato, mi si tolse il bonetto, mi si lacerò l’uniforme, mi si sputò in viso, e poi non mi si dette più un momento di pace, perchè facendomi soffrire sempre ingiurie e maltrattamenti, si cercò pure di disonorarmi una sorella; laonde accecato dalla rabbia e dalla vergogna non vidi altra via di vendetta per me che quella dei boschi…”[12]
il brigante Carmine Crocco
Inoltre alcuni rappresentanti della nobiltà lealista europea accorsero dal re in esilio nella difesa”per il trono e l’altare",”per la fede e la gloria“, e già durante l’assedio di Gaeta si erano visti francesi, belgi, austriaci, sassoni e anche qualche americano; il loro contributo fu però marginale poiché i”briganti”, contadini e pastori in massima parte, non avevano una”cultura militare”tale da accettare le direttive di questi soldati stranieri che non riuscirono ad inquadrarli in formazioni paramilitari né tanto meno a coordinarne le azioni sotto un comando unico; ben noto è il contrasto tra il brigante Carmine Crocco e lo spagnolo Borges che, anche per questo motivo, abbandonò la partita, cercò di raggiungere Roma ma fu preso dai piemontesi a pochi chilometri dal confine e fucilato a Tagliacozzo l’8 dicembre del 1861.
José Borges
Nei primi mesi del 1861, quando le ultime piazzeforti borboniche, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, si arrendono dopo un’eroica quanto sconosciuta resistenza, l’opposizione lealista ha radici ben salde nel regno; a Napoli, l’ex-capitale travagliata da una grave crisi economica, agisce la propaganda dell’agguerrito comitato borbonico della città che riesce a organizzare una manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia; nel mese di aprile 1861 è sventata una cospirazione antiunitaria e sono arrestate oltre seicento persone, fra cui 466 ufficiali e soldati dell’esercito napoletano e il duca di Caianello, trovato in possesso di una lettera di Francesco II; la strategia della resistenza borbonica mira a mostrare la fragilità del potere di Vittorio Emanuele e a tenere desta l’attenzione degli Stati europei nella speranza di sviluppi internazionali sulla questione italiana che possano determinare un intervento armato o almeno diplomatico dell’Austria o delle altre potenze europee.
Francesco II, però, non ebbe la capacità di essere capo militare e politico, di centralizzare e dirigere il movimento di restaurazione in modo coerente e credibile; suo zio, il conte di Trapani, aveva fondato la cosiddetta ”Associazione religiosa” che in realtà era la ”Centrale” del movimento partigiano, e di essa facevano parte alcuni ufficiali fedeli al monarca meridionale (Ulloa, Bosco, Statella, Clary, Vial); essi provvedevano all’acquisto di armi, alla distribuzione di fondi per i ”briganti” e all’elaborazione di piani di riconquista; non ci furono mai problemi di reclutamento di uomini fedeli alla causa, mancava però il denaro perché il patrimonio personale di Francesco II era stato saccheggiato dai garibaldini; per sostenere la loro causa i lealisti arrivarono a coniare”nuove monete meridionali recanti la data del 1859 ed opportunamente annerite”.
Giuseppe Ressa
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[1] Angela Pellicciari, op. cit.
[2]“Sulle condizioni morali e materiali delle province del Mezzogiorno d’Italia”, Napoli, Stab. Tipografico Largo Trinità Maggiore riportato da Tommaso Pedio, Brigantaggio meridionale, Capone editore, 1997, pag. 49
[3] citato da Angela Pellicciari,”L’altro Risorgimento”, Piemme,2000, pag 273
[4] Franco Molfese nella presentazione del libro di Antonio Chiazza”Giuseppe Tardio”, Tempi Moderni edizioni, Napoli, 1986
[5] Francesco Pappalardo, Civiltà del Sud, luglio 2003
[6] De Jaco,”Il brigantaggio meridionale”, Editori Riuniti, Roma, 1969
[7] De Jaco,”Il brigantaggio meridionale”, Editori Riuniti, Roma, 1969, modif.
[8] dalla autobiografia del brigante Carmine Donatelli,”Crocco”, riportata da De Jaco, op. cit., modif.
[9] De Jaco, op. cit., modif.
[10] ibidem
[11] Mario Pacelli, Cattivi esempi, Sellerio, 2001
[12] Orazione del brigante Pasquale Cavalcante davanti al plotone di esecuzione, citata da Tommaso Pedio, op. cit. pag. 49
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molte delle immagini dei briganti sono tratte dall'archivio del cap. Alessandro Romano, che ringraziamo
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il cadavere del brigante Antonio Caprariello
Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso
“Quelli che hanno chiamato i Piemontesi e che hanno consegnato loro il regno della Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si trovano dovunque”(Journal des Debats, novembre 1860, in una corrispondenza da Napoli)[1].
La mistificazione storica, sopravvissuta fino ad oggi, ha fatto sì che le popolazioni meridionali (contadini, pastori e braccianti da una parte; intellettuali e notabili dall’altra), contrarie a quanto era stato loro imposto con la forza, siano state spogliate delle loro vere motivazioni alla resistenza e marchiate rispettivamente con gli appellativi di”briganti”e”reazionari”; si nascosero con tutti i mezzi le vere ragioni, economiche e ideali, di quella che rimane la più lunga insurrezione dei popoli meridionali contro quello che essi consideravano lo straniero invasore.
Per quanto riguarda i cosiddetti ”briganti” essi furono soprattutto espressione della popolazione rurale (contadini, braccianti e pastori) che si sentì defraudata dal nuovo ordine sociale; scriveva Carlo Dotto de Dauli nel 1877 [2]: ”Il brigante è, nella maggior parte dei casi, un povero agricoltore e pastore di tempra meno fiacca e servile degli altri che si ribella alle ingiustizie e ai soprusi dei potenti e, perduta ogni fiducia nella giustizia dello Stato, si getta alla campagna e cimenta la vita, anelando vendicarsi della Società che lo ridusse a quell’estremo“.
Infatti, dopo l’editto di Garibaldi del 2 giugno 1860, le masse rurali si erano illuse che ”la rivoluzione unitaria italiana” portasse con sé la tanto sospirata divisione delle terre, ma si dovettero ricredere perchè, con l’avvento di Vittorio Emanuele, i comitati liberali, composti da ricchi borghesi ferventi ”unitaristi”, si impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi al patrimonio demaniale, sul quale i contadini e i pastori esercitavano gratuitamente gli usi civici, e lo misero all’asta. In questo modo le terre non infeudate passarono velocemente in loro possesso e ai contadini, defraudati dei loro secolari diritti d’uso (gli usi civici), rimasero due possibilità: ”o brigante o emigrante“; secondo la valutazione dello storico marxista Emilio Sereni il totale degli ettari alienati e venduti in Italia ammonta a 2.565.253: «oltre due milioni e mezzo di ettari di terra, situati per la maggior parte nell'Italia meridionale, nel Lazio e nelle isole».[3]
il brigante Gaetano Manzi
Queste motivazioni ”sociali” furono alla base della rivolta meridionale detta”brigantaggio” e si intersecarono con quelle politiche legittimiste, ”l’amalgama dei due aspetti è sempre dialettico e varia a seconda dei tempi e dei luoghi”[4] ma di solito le prime prevalsero di gran lunga tanto che molti storici considerano il ”brigantaggio” come ”il padre” di tutte le lotte che i contadini del Sud condussero per decenni al fine di ottenere migliori condizioni di vita. ”Dopo il 1860, l’intreccio di brigantaggio e legittimismo borbonico spinge la classe politica unitaria ad individuare nelle province annesse il luogo da cui proviene la più grave minaccia interna all’esistenza del Regno d’Italia e ad assegnarsi la missione di inserire nella nuova compagine statale l’ex Regno napoletano anche a costo di cancellarne l’identità storica”[5]
il brigante Giuseppe Tardio
“Negli anni ’60 del secolo scorso nel Mezzogiorno c’era la guerra, e una guerra feroce, senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincea e retrovia. Dei due eserciti, quello”vero“, con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola militare di Torino se ne stava di presidio nei paesi, isolato come se fosse nel cuore dell’Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili e quasi sempre un figlio o un fratello fra le montagne a tenere testa agli”invasori”. [6] Ogni tanto il presidio veniva a sapere di qualche”reazione agraria”di qualche”ribellione borbonica”e accorreva di zona in zona, sulle poche strade conosciute, a reprimere le rivolte, dai boschi e dalle montagne scendeva allora ad affrontarlo l’esercito silenzioso dei briganti. Nei paesi, infatti, si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli uffici del catasto (“gli eterni nemici nostri” li chiamava il brigante Crocco), nonché i saccheggi delle case dei”galantuomini“, noti come usurpatori delle terre demaniali; si abbattevano gli stemmi sabaudi e le immagini di Vittorio Emanuele e Garibaldi, s’issava il vessillo borbonico e si restauravano nuove effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all’esiliato Francesco II, re delle Due Sicilie. I possidenti scappavano verso le zone presidiate dall’esercito piemontese e quando i bersaglieri rioccupavano i paesi ”reazionari” rientravano con essi; tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia, con l’incendio dei quartieri più poveri e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri: uomini dai volti chiusi dalle grandi barbe, da vestiti fatti di pelli”. ”[7] [spesso i loro cadaveri venivano lasciati insepolti per giorni, come ammonimento] ”I briganti, quando non sono minacciati da vicino dalla truppa, dormono normalmente all’ombra di fronzute quercie, sdraiati a terra alla rinfusa; per guanciale hanno un sasso od una zolla, per coperta il cappotto o il mantello; i fucili sono appoggiati alle piante con le cartucciere appese ai calci. Sul fronte, ai lati, a tergo, tutto all’ingiro della posizione, vedette avanzate vegliano attente, mentre le spie segrete stanno dentro le truppe…a rinforzo delle vedette vi sono i cani, feroci mastini che fiutano la preda…i cavalli pascolano liberi nel folto del bosco. I feriti…sono curati con affetto: le ferite sono lavate con acqua e aceto, i farmaci normalmente usati sono: patate, filacce, fascie, bianco d’uovo, olio di olivo sbattuto e foglie d’erba. Per rancio la banda è ripartita in gruppi ognuno dei quali è presieduto da un caporanciere; sul pendio meno ripido della posizione in luogo possibilmente coperto, perchè il fumo non ci tradisca, si accendono i fuochi; poco lontano i cucinieri sono intenti a scannare capretti, scuoiare maiali, spennare polli e tacchini……i viveri requisiti nelle ricche masserie e spesso nei villaggi con arma alla mano. I denari per la paga vengono forniti dai signori reazionari e liberali, i primi con elargizioni spontanee, i secondi forzatamente con minaccia; in caso di rifiuto, di taglio di piante, incendi, devastazioni ed altri simili danni. La plebe, dalla quale noi tutti eravamo usciti, in generale fu di potente ausilio in tutte le nostre imprese. Cotesto aiuto era conseguenza dell’odio innato del popolo nostro contro i regi funzionari e contro i Piemontesi, causa il modo sprezzante col quale gli ufficiali usavano trattare le popolazioni”[8].
il brigante Giuseppe Petrelli
Una delle tante anime del brigantaggio era la componente religiosa: frati e sacerdoti sono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi, benché spesso scacciati dalle loro sedi come avvenne all’arcivescovo di Napoli, Sisto Riario Sforza, sostengono efficacemente l’insurrezione, promulgando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste provenienti dalla Santa Sede; nel 1861 in 57 su 84 diocesi del Sud i vescovi erano impossibilitati ad esercitare le loro funzioni per l’opposizione del nuovo regime. L’invasore piemontese era considerato un nemico della religione ed il popolo ne aveva prova tangibile nelle numerose profanazioni di luoghi sacri effettuate dai soldati piemontesi, inoltre, il loro re, Vittorio Emanuele, era stato scomunicato da papa Pio IX.
Le classi superiori, a loro volta, non potevano ignorare la sistematica guerra del Regno di Sardegna al potere temporale della Chiesa iniziata nel 1848 con la cacciata dei gesuiti, proseguita con le leggi Siccardi del 1850 che sopprimevano alcuni privilegi ecclesiastici (il diritto di asilo che godevano i luoghi sacri, il foro ecclesiastico che giudicava i religiosi accusati di reati comuni, la censura ecclesiastica), inasprita con la legge per la soppressione di alcuni ordini religiosi del 1855 (e culminata, il 7 luglio del 1866, con l’abolizione di tutti gli ordini e la confisca dei loro beni frutto in gran parte delle donazioni dei credenti; con la legge del 19 giugno 1873 questo provvedimento fu esteso anche a Roma), a questo proposito qualcuno ironizza sul significato vero dell’espressione”Libera Chiesa in libero Stato”.
Sottolinea, inoltre, De Jaco [9] che ”i briganti erano religiosissimi, avevano dei cappellani nelle bande e dei santi protettori per le bandiere (in generale i santi del loro paese di origine), …. si ornavano il collo e i polsi di amuleti, di madonne, di corone, ostie consacrate, santini, la sera recitavano in comune il rosario.”. Spesso, prima della morte, invocavano la Madonna, a loro molto cara, come pure fece, sulla sponda opposta, il milite della guardia nazionale Vitantonio Donateo che per questo ebbe salva la vita:”Quando uno dei briganti che era tornato ferito dal combattimento coi carabinieri, disponeva sulla sorte di noi altri…….dovea essere fucilato io, e mi ordinarono di mettermi colla faccia a terra, il che avendo io fatto, con lo squallore della morte, gridai: ”Madonna del Carmine, aiutami!”ed intesi lo scatto del fucile che non diè fuoco. Allora un brigante disse:”Alzati che tu sei salvo e devi essere veramente devoto alla Madonna del Carmine come ne sono io; le devi fare una gran festa”[10] [il brigante era l’ex sergente borbonico Domenico Pasquale Romano].
il Sergente Romano
Non meno importante fu la ”resistenza non armata“, la resistenza civile, bollata come ”reazionaria”, che si presenta con forme molto articolate e coinvolge tutta la società meridionale del tempo come risulta dagli atti dei processi celebrati dalle corti civili a Napoli; ne offrono testimonianza l’opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della Magistratura che deve subire nei sui membri più prestigiosi delle vere e proprie epurazioni e vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni giuridiche; la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali (già il 19 maggio del 1861, in occasione delle elezioni amministrative, votò a Napoli meno di un terzo degli aventi diritto), il rifiuto della coscrizione obbligatoria, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de' Sivo.
Le numerose pubblicazioni antiunitarie avevano generalmente vita breve perché erano sottoposte a sequestro e i loro autori a minacce fisiche o al carcere, segno evidente che la ”libertà di stampa“, sancita dallo Statuto Albertino, non valeva per la stampa di opposizione ma solo per quella di regime; i redattori di questi giornali passavano di rivista in rivista, a mano a mano che queste chiudevano per forza maggiore, diventando professionisti di un giornalismo militante, semiclandestino e quasi avventuroso; questa pubblicistica di opposizione fu molto attiva per tutti gli anni sessanta, poi la stampa autonomistica ed antiunitaria perse gran parte del suo furore anche a causa della caduta di Roma del 1870.”La libertà di stampa era in realtà una libertà attentamente vigilata con premi per i buoni ed inevitabili castighi per i cattivi…un giornale ben fatto che fosse, era in quegli anni una impresa disastrosa sotto il profilo economico. Le edicole non esistevano: il giornale veniva venduto per abbonamento o presso il tipografo…mille copie erano già una buona tiratura: nel decennio 1861-1871 la tiratura complessiva di tutti i giornali del Regno si aggirava sulle 400.000 copie…la soluzione per far quadrare i conti era molto semplice: ottenere un appalto per la pubblicazione di notizie ufficiali, da parte del Governo, Ministro o Prefetto che fosse…naturalmente occorreva dare qualcosa in cambio, ciò che significava non criticare mai e per nessun motivo l’autorità ed anzi tesserne il più possibile gli elogi, specie quando si trattava di Sua Maestà il Re. La”Gazzetta piemontese”di Torino, ad esempio, ebbe per molti anni vita tranquilla per aver ottenuto l’appalto della pubblicazione dei dibattiti e delle decisioni del Parlamento, che aveva allora sede in Torino.”[11]
Infine ricordiamo la componente legittimista della reazione, il partito borbonico, che pur non raggiungendo l’obiettivo fondamentale di riportare la dinastia legittima sul trono, riuscì per anni ad aggregare quasi tutte le componenti sociali intorno a un sentimento patriottico e nazionale; molti soldati delle milizie borboniche, rifiutando l’arruolamento nel nuovo esercito italiano e il giuramento al nuovo Re, si ponevano l’obiettivo di restaurare Francesco II; spesso essi si davano alla macchia e si univano agli insorgenti perché respinti dalla”società civile“, già prona ai voleri dei conquistatori piemontesi; con loro si aggregarono addirittura ex garibaldini, delusi dalla piega che avevano preso gli avvenimenti.”Ero sergente di Francesco II, ritornato a casa come sbandato, mi si tolse il bonetto, mi si lacerò l’uniforme, mi si sputò in viso, e poi non mi si dette più un momento di pace, perchè facendomi soffrire sempre ingiurie e maltrattamenti, si cercò pure di disonorarmi una sorella; laonde accecato dalla rabbia e dalla vergogna non vidi altra via di vendetta per me che quella dei boschi…”[12]
il brigante Carmine Crocco
Inoltre alcuni rappresentanti della nobiltà lealista europea accorsero dal re in esilio nella difesa”per il trono e l’altare",”per la fede e la gloria“, e già durante l’assedio di Gaeta si erano visti francesi, belgi, austriaci, sassoni e anche qualche americano; il loro contributo fu però marginale poiché i”briganti”, contadini e pastori in massima parte, non avevano una”cultura militare”tale da accettare le direttive di questi soldati stranieri che non riuscirono ad inquadrarli in formazioni paramilitari né tanto meno a coordinarne le azioni sotto un comando unico; ben noto è il contrasto tra il brigante Carmine Crocco e lo spagnolo Borges che, anche per questo motivo, abbandonò la partita, cercò di raggiungere Roma ma fu preso dai piemontesi a pochi chilometri dal confine e fucilato a Tagliacozzo l’8 dicembre del 1861.
José Borges
Nei primi mesi del 1861, quando le ultime piazzeforti borboniche, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, si arrendono dopo un’eroica quanto sconosciuta resistenza, l’opposizione lealista ha radici ben salde nel regno; a Napoli, l’ex-capitale travagliata da una grave crisi economica, agisce la propaganda dell’agguerrito comitato borbonico della città che riesce a organizzare una manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia; nel mese di aprile 1861 è sventata una cospirazione antiunitaria e sono arrestate oltre seicento persone, fra cui 466 ufficiali e soldati dell’esercito napoletano e il duca di Caianello, trovato in possesso di una lettera di Francesco II; la strategia della resistenza borbonica mira a mostrare la fragilità del potere di Vittorio Emanuele e a tenere desta l’attenzione degli Stati europei nella speranza di sviluppi internazionali sulla questione italiana che possano determinare un intervento armato o almeno diplomatico dell’Austria o delle altre potenze europee.
Francesco II, però, non ebbe la capacità di essere capo militare e politico, di centralizzare e dirigere il movimento di restaurazione in modo coerente e credibile; suo zio, il conte di Trapani, aveva fondato la cosiddetta ”Associazione religiosa” che in realtà era la ”Centrale” del movimento partigiano, e di essa facevano parte alcuni ufficiali fedeli al monarca meridionale (Ulloa, Bosco, Statella, Clary, Vial); essi provvedevano all’acquisto di armi, alla distribuzione di fondi per i ”briganti” e all’elaborazione di piani di riconquista; non ci furono mai problemi di reclutamento di uomini fedeli alla causa, mancava però il denaro perché il patrimonio personale di Francesco II era stato saccheggiato dai garibaldini; per sostenere la loro causa i lealisti arrivarono a coniare”nuove monete meridionali recanti la data del 1859 ed opportunamente annerite”.
Giuseppe Ressa
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[1] Angela Pellicciari, op. cit.
[2]“Sulle condizioni morali e materiali delle province del Mezzogiorno d’Italia”, Napoli, Stab. Tipografico Largo Trinità Maggiore riportato da Tommaso Pedio, Brigantaggio meridionale, Capone editore, 1997, pag. 49
[3] citato da Angela Pellicciari,”L’altro Risorgimento”, Piemme,2000, pag 273
[4] Franco Molfese nella presentazione del libro di Antonio Chiazza”Giuseppe Tardio”, Tempi Moderni edizioni, Napoli, 1986
[5] Francesco Pappalardo, Civiltà del Sud, luglio 2003
[6] De Jaco,”Il brigantaggio meridionale”, Editori Riuniti, Roma, 1969
[7] De Jaco,”Il brigantaggio meridionale”, Editori Riuniti, Roma, 1969, modif.
[8] dalla autobiografia del brigante Carmine Donatelli,”Crocco”, riportata da De Jaco, op. cit., modif.
[9] De Jaco, op. cit., modif.
[10] ibidem
[11] Mario Pacelli, Cattivi esempi, Sellerio, 2001
[12] Orazione del brigante Pasquale Cavalcante davanti al plotone di esecuzione, citata da Tommaso Pedio, op. cit. pag. 49
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molte delle immagini dei briganti sono tratte dall'archivio del cap. Alessandro Romano, che ringraziamo
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mercoledì 13 gennaio 2010
L'INSABBIAMENTO CULTURALE
DELLA
"QUESTIONE MERIDIONALE"
controstoria
di CARLO COPPOLA
Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.
Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.
Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.
La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".
Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.
Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.
A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:
a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".
b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.
c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.
La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.
Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.
In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.
Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".
In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.
La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.
D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano – come sempre accade – in subordine rispetto a quelle economiche.
Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.
Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.
L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.
Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.
Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.
Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.
In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).
Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".
A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.
Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).
Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.
Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.
Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.
Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.
Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.
L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".
Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.
Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".
La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.
Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.
Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.
Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.
L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.
Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.
Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.
Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.
La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.
Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.
Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.
La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.
Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.
Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.
L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.
di CARLO COPPOLA
"Controstoria dell'Unità d'Italia"
M.C.E. Editore
vedi BRIGANTAGGIO: LA GUERRA DEI POVERI >
vedi PULIZIA ETNICA PIEMONTESE NEL SUD >
vedi I BRIGANTI? VI DICO IO CHI SONO! >
vedi IL LAGER PIEMONTESE DI FENESTRELLE >
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CRONOLOGIA GENERALE
DELLA
"QUESTIONE MERIDIONALE"
controstoria
di CARLO COPPOLA
Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.
Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.
Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.
La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".
Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.
Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.
A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:
a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".
b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.
c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.
La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.
Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.
In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.
Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".
In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.
La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.
D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano – come sempre accade – in subordine rispetto a quelle economiche.
Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.
Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.
L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.
Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.
Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.
Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.
In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).
Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".
A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.
Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).
Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.
Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.
Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.
Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.
Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.
L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".
Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.
Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".
La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.
Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.
Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.
Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.
L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.
Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.
Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.
Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.
La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.
Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.
Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.
La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.
Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.
Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.
L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.
di CARLO COPPOLA
"Controstoria dell'Unità d'Italia"
M.C.E. Editore
vedi BRIGANTAGGIO: LA GUERRA DEI POVERI >
vedi PULIZIA ETNICA PIEMONTESE NEL SUD >
vedi I BRIGANTI? VI DICO IO CHI SONO! >
vedi IL LAGER PIEMONTESE DI FENESTRELLE >
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CRONOLOGIA GENERALE
lunedì 11 gennaio 2010
sergente romano 1
IL SERGENTE ROMANO
di: Antonio Lucarelli - da: "AVVENTURE ITALIANE" Vallecchi Editore, Firenze, 1961
LE GESTA DEL BRIGANTAGGIO
Nell'intervallo di tempo che corse dall'estate del 1861 all'autunno del 1863 si svolsero in Puglia le gesta più formidabili del brigantaggio; il quale per audacia di tentativi e per numero di seguaci, arrivò a tal segno da infrangere la fiducia d'ogni classe di cittadini nelle nuove istituzioni. A nord, fra il basso Molise, il Beneventano e la Capitanata, imperversavano le bande di Varanelli, Schiavone, Del Sambro e Caruso di Torremaggiore, che era il più sanguinano e crudele dei briganti pugliesi; nel montuoso Gargano infuriava con Palumbo, Sammarchese, Scirpoli, Paletta ed altri fuoriusciti il feroce Gatta, orbo da un occhio; e a mezzogiorno della medesima provincia, tiranneggiava Palliacello: erano centinaia e centinaia di predoni, che sovente si adunavano al bosco delle grotte, non lungi dal Fortore, ove anche convenivano, per macchinare più arrischiate imprese, Crocco, Minelli, Cicogna e simili protagonisti della reazione borbonica. A sud, nella penisola salentina, scorazzavano altre numerose, ma piccole bande, capitanate da La Veneziana, Mazzeo, Trinchera, Monaco, Valente, Scarati, Perrone, Cristilli e Locaso, che con una orda composta in gran parte di contadini di Santeramo batteva gli estremi limiti di Puglia, Basilicata e Calabria. Al centro della regione, in Terra di Bari, oltre al sergente Romano, correvano le nostre pianure Francesco Saverio l'Abbate di Polignano, Cataldo Franchi di Ruvo, Luigi Terrone di Corato, Riccardo Carbone e Riccardo Colasuonno (Ciucciariello) di Andria; Marco e Scipione de Palo di Terlizzi, Bellettieri di Spinazzola ed altri minori duci. Alle cotidiana rappresaglia di torme indigene si aggiungevano qui le irruzioni delle masnade finitime, favorite dall'intermedia positura dell'agro barese. Carmine Donatello, che stanziava d'ordinario sulle rive dell'Ofanto, Giuseppe Nicola Summa, che soggiornava nei boschi di Lagopesole, Tortora, Cavalcante, Coppolone, Serravalle, il Capraro, Nenna Nenna e Pizzichicchio, il quale aveva il suo quartiere fra le macchie di San Marzano, in Terra d'Otranto; quasi tutti i capi banda di Basilicata e Lecce, a brevi intervalli, connivente il Romano, piombavano sull'agro barese, apportandovi calamità inaudite. Gravi minacce incombevano sulla provincia di Bari nell'autunno del 1861. Un ufficio riservatissimo, inviato dalla nostra prefettura al presidente della Gran Corte Criminale di Trani, riferendosi agli arresti compiuti nel comune di Gioia in conseguenza della nota sommossa, si esprime così circa il contegno delle nostre popolazioni:
"Credo opportuno mettere sotto gli occhi di V.S. che la condizione dei tempi che corrono, è più grave di quella in cui furono eseguiti gli arresti; che la ridicola credenza dell'avvenuta o possibile restorazione dei Borboni è generale nel basso popolo, che l'impudenza nell'agitarsi e spargere tali notizie, precisamente dalle famiglie dei detenuti, è massima, che il Governo è vivamente preoccupato dalla possibilità di una invasione generale nel Barese dei numerosi briganti concentrati sul confine della Basilicata".
E vari dispacci, anch'essi urgenti e riservati, spediti nei primi di ottobre dal Ministero degli Interni al nostro governatore, esortavano le autorità a vigilare sui movimenti delle torme lucane, le quali ordinavano tentativi reazionari ed incursioni ai danni di queste ubertose contrade. Infatti, nel successivo novembre, il generale carlista José Boryes, che aveva assunto la direzione suprema delle ciurme operanti nella Basilicata, apparve minaccioso tra le colline di Altamura; ma, fossero i dissensi e le gelosie che allora agitavano la comitiva del Donatello, invido e sospettoso della presenza e della superiorità dell'avventuriero catalano, fossero le provvidenze dei nostri governanti o altri motivi che non ci è dato conoscere, la spedizione si fermò, a quanto pare, sul confine delle due province, e non ebbe ulteriori effetti. Di lì a tre mesi, però fu ritentata, e compiuta. Duecento banditi a cavallo, agli ordini di Crocco e compartecipe il Romano, il 24 febbraio 1861 entrano in Terra di Bari e avanzano fin sotto le campagne di Andria e di Corato. Qui uccidono a fucilate alcuni militi coratini che andavano in cerca di sbandati, depredano le masserie e, fatto un copioso bottino, riprendono il cammino in direzione ovest. A tali notizie il maggiore Alfonso Grilli, della guardia nazionale di Corato, corre sulla Murgia con un centinaio di gregari, ansiosi di vendicare la morte dei commilitoni: ma non trovò la masnada e, recando con sé i cadaveri delle vittime, rientrò in città fra i pianti e l'esasperazione dei conterranei. I predoni, frattanto, si fermano alla masseria Viti, in tenimento altamurano, occupano la strada fra Toritto e Altamura e, intercettate le corrispondenze postali e telegrafiche, spadroneggiano in quei luoghi con ogni sorta di spoliazioni. Il generale Regis, sorpreso dall'audace scorreria, ordina una celere concentrazione di truppe sulle posizioni occupate dai borbonici; da Gioia, Noci, Alberobello, Acquaviva, Barletta, Matera ed altri comuni partono manipoli di guardie nazionali e soldati del cinquantesimo fanteria; onde, quelli vedendosi minacciati di avvolgimento, fuggono via e, toccando la casa colonica Mercadante, la Risecca di Grumo, i boschi di Cassano e Santeramo, pervengono alla selva di San Basile, ove indugiano alcune ore. Il comandante italiano dispone per telegrafo l'avanzata di qualche compagnia dai quartieri tarantini allo scopo di precludere la ritirata ai fuggiaschi; ma questi, più agili ed. accorti, sfuggono agli inseguitori e si mettono in salvo fra i boschi di Craco. Nella prima quindicina di marzo un'altra comitiva, se non forse la medesima, composta di centoquaranta uomini, riappare sulle balze altamurane, soggiorna nell'abitato rurale di Claudio Melodia ed occupa il castello di Guaragnone. Agguerrite colonne di fanti e guardie civiche marciano colà; ma, secondo il solito, al primo apparire delle nostre milizie, i briganti si dileguano. Non trascorre un mese ed un'altra invasione si effettua da parte di Ninco Nanco, che, attraversate le Murge di Spinazzola, minaccia con le bande riunite la nostra pianura. Anche in questa emergenza la guardia coratina, sostenuta da un plotone di carabinieri, affronta la masnada, che, dopo una fugace scaramuccia, abbandona le posizioni, lasciando sul terreno un cadavere e quattro cavalli. Ai primi di maggio la stessa banda, sorpresa dai cavalleggeri del Mennuni di Genzano, viene gravemente sconfitta; e il tenente generale Cosenz partecipa la lieta novella ai nostri comuni col seguente dispaccio inviato da Bari alle sette pomeridiane del 9maggio 1862:
"Colonna Davide Mennuni ha disfatto comitiva Ninco Nanco. 15 briganti uccisi, molti feriti, ferito Ninco Nanco, cavalli ed armi abbandonati"
Il Prefetto: COSENZ
L'esultanza fu assai breve. Di lì a pochi giorni la compagnia del sergente Romano comparve nei parchi delle Monache Chiariste e nel bosco municipale Bonelli, presso Noci. Un plotone di cinquanta militi muove per quei luoghi; ma, di fronte al numero soverchiante dei nemici, retrocede e si ferma sulla Murgia d'Albanese, aspettando rinforzi chiesti con urgenza da Bari e da Taranto. Il Romano, informato delle intenzioni avversarie, lascia il territorio di Noci e si rifugia nella foresta di Pianella. Il 15 giugno, banditi e guardie civiche di Martina vengono alle mani nelle vicinanze della masseria Marrocco; il giorno 8 i masnadieri assaltano sull'imbrunire la fattoria del Chiancarello, appartenente ai signori Cassano di Gioia, e ucciso il fittavolo Domenico Pugliese di Putignano, depredano armi, cavalli ed oggetti di considerevole valore; il 12 commettono ruberie e ricatti nel territorio di Santeramo; il 19 contristano di nuovo le adiacenze di Noci, ove la tranquillità cittadina è ognora turbata "perché i malviventi si fanno vedere in punti diversi, ora uniti ed ora divisi"; fra il 20 e il 25, devastano i campi e le masserie di Alberobello, Cisternino e Locorotondo, e negli ultimi giorni del mese tornano ad occultarsi fra gli inospiti covi di Pianella per prendere nuova lena e commettere nuovi orrori. Così passano i giorni queste nomadi turbe: è un agitarsi continu6 al gelido soffio della tramontana e al torrido sole dell'estate, fra le macchie spinose, che lacerano le carni, e le buie caverne che corrodono le fibre; è un correre vertiginoso ed ansante interrotto da fugaci tregue, una vita di torture inenarrabili, cui pone termine la fucilazione o la galera! Tener dietro ai movimenti disordinati e molteplici della banda Romano, sarebbe una fatica assai dura e fors'anche priva di interesse storico: barbari eccidi, effimeri trionfi, rotte sanguinose, estorsioni, rapine, vandalismi compiuti sempre in nome del sovrano e della fede, ecco in brevi parole la storia, triste ed uniforme, della comitiva. Sorvolo sui fatti di secondaria importanza e mi avvio rapidamente alla fine, indugiandomi sugli episodi più notevoli.
L'ASSALTO AD ALBEROBELLO
In uno degli ultimi giorni di luglio, le guardie civiche di Alberobello, perlustrando le finitime selve, si presentano alla masseria dei Monaci di San Domenico, frequente rifugio del Romano, e fatta una perquisizione, sequestrano sedici pacchi di cartucce e catturano il reticente guardiano. Di ciò informati, i banditi risolvono di infliggere subito ai temerari militi un'esemplare punizione. Sul declinare del giorno 26, il sergente Romano chiama a raccolta la ciurma, e schieratala in ordine militare con opportuni fiancheggiatori e vedette, muove sulla borgata. Giunti verso le dieci della sera a poco meno di un miglio dall'abitato, i masnadieri si fermano, e poiché scorgono ancora delle luci e odono dei canti, rimandano l'aggressione a notte più inoltrata. In questo mezzo, favoriti dall'oscurità, pervengono al Romano alcuni messaggeri di quel Comune, fra i quali, secondo le noti4e di autorevoli documenti, ci sarebbe qualche ufficiale della guardia civica, complice del misfatto. Ottenuti precisi ragguagli e prese le ultime disposizioni, uno stuolo di trenta fuoriusciti, staccatisi dalla masnada, va all'assalto con passi guardinghi e silenziosi. Il milite Tommaso Locorotondo, che era di sentinella, intravveduta fra le tenebre l'insidia, grida : - Alto Chi va là? Ma non ha proferite queste parole che dieci briganti gli sono addosso, lo disarmano e lo legano, imponendogli di tacere. Quindi, con le baionette innastate, invadono il quartiere e domandano dell'ufficiale di guardia. A tale ingiunzione si presenta il caporale Antonio Greco, da cui chiedono, e ottengono immediatamente, la restituzione delle cartucce sequestrate alla masseria dei Monaci. Intanto i militi, che erano li presenti, sbigottiti dall'ingrata sorpresa, tentano di fuggire; ma i banditi, coi fucili in pugno, comandano loro di non muoversi, pena la vita. Alcuni, per disgrazia, trasgrediscono agli ordini e vanno a rifugiarsi in una stanza contigua barricandovisi dentro. I predoni, allora, infrangono la porta, uccidono la guardia Curri, alla quale tolgono la giacca e le scarpe, e feriscono i militi De Felice, De Leonardis e Castellano. Poscia mettono a soqquadro ogni cosa; prendono una trentina di fucili con altrettante baionette, un tamburo, sei daghe, venti bandiere ed altri oggetti. Da ultimo, schierate a due a due le guardie, se le trascinano dietro, parte libere, parte avvinte con funi, sulla via di Martina. Giunti però all'estramurale, ed impietositi dalle lacrime di quegli infelici, li lasciano andar via. L'aggressione fu compiuta in un quarto d'ora!
GLI ECCIDI DEL 6 AGOSTO
Sul cadere dello stesso mese di luglio, fra i seguaci del Romano erano sorte gravi discordie, per cui un gruppo numeroso di fuoriusciti, Cecere, Guarini, Convertini e Chirico di Cisternino con altri compagni, avevano disertato, aggregandosi alla comitiva di un capobanda napoletano. Poscia, vedendosi deboli e mal protetti, tornarono in cerca del vecchio duce, che allora soggiornava nelle campagne di Ostuni, Locorotondo e Alberobello. Come i reduci briganti si avvicinano ai nascondigli già noti, avvistati dalle sentinelle e accolti a fucilate, si danno alla fuga; ma due di essi, Vitantonio Cecere e Francesco Chirico, son catturati dai contadini che per caso lavoravano in quei dintorni, e in particolar modo da un tal Riccardo Tanzarella di Ostuni, che, intuito il movente della fuga e punto persuaso delle loro dichiarazioni, insiste presso i compagni, perché sian trattenuti e consegnati alle autorità. Mentre si discute sul da farsi, sopraggiungono due massari, Francesco d'Errico e Francesco Seleraro, occulti ricettatori del malandrinaggio; i quali, facendosi mallevadori dell'onestà di quei furfanti, non solo dissuadono il Tanzarella dal temerario proposito e ne ottengono la liberazione, ma intercedono presso il Romano, perché li accolga di nuovo alla sua dipendenza. Riammessi così nella compagnia, implorano dal sergente soddisfazione e vendetta delle patite ingiurie; l'uno, Vitantonio Cecere, contro il Tanzarella che li aveva esposti a sì grave pericolo; l'altro, Francesco Chirico, contro il liberale Oronzo Terruli, agricoltore di quella contrada che nel giugno precedente lo aveva denunciato come un pericoloso reazionario, costringendolo ad abbandonar la famiglia. Il capitano accondiscende alle voglie dei militi ed ordina che la spedizione punitiva si compia, rapida e spietata. Sul tramonto del 6 agosto, un manipolo di codesti forsennati sorprendono il Tanzarella presso la sua "casedda", il "trullo" caratteristico di quei luoghi, lo acciuffano, gli avvincono le braccia con una corda in presenza degli atterriti familiari, e lo trascinano a viva forza nella vicina selva. Verso le undici della notte, la compagnia si scinde: gli uni rimangono con il condottiero in custodia del catturato, gli altri muovono sulla masseria Marangiuli, ove si trovava Oronzo Terruli. Questi, rassegnato all'inevitabile destino, ma risoluto a vender cara la vita, da un balcone respinge gli aggressori a fucilate e ferisce gravemente un masnadiero di Viareggio, che vien subito condotto alla presenza del Romano. Come l'impulsivo sergente scorge il compagno ferito e barcollante, preso da repentino furore, ordina, per rappresaglia, l'immediata fucilazione del prigioniero. Il povero contadino implora la vita; ma quegli, acceso dall'ira, non recede dal suo proposito, sì che il Tanzarella cade fucilato nel silenzio delle tenebre. Esegnita la condanna, accorrono tutti alla masseria, sfondano le porte e, saliti al primo piano, ammazzano il vecchio Marangiuli, che era congiunto e socio del Terruli nell'azienda agricola. Questi si rifugia sotto un letto; ma è tratto fuori dal Chirico, suo implacabile nemico, che, avutolo nelle mani, esclama: - Assassino traditore! Mi hai fatto lasciare i figli miei! - E anche il Terruli cade trafitto da numerosi proiettili e da ventisei pugnalate.
IL MARTIRIO DI VITO ANGELINI
Di li a pochi giorni, sulle prime ore della mattina, un branco di quei fanatici si reca alla masseria Serinello, dove soleva dimorare l'agricoltore Vito Angelini di Putignano, fervido seguace delle istituzioni liberali. Trovatolo colà, lo traggono in arresto a nome di Francesco II, gli legano strettamente i polsi e lo conducono al bosco De Laurentis, fra Santeramo e Gioia. Qui attende il Romano, che lo sottopone ad una specie di interrogatorio e gli chiede: - notizie dell'opera spiegata da lui e dai congiunti nella recente rivoluzione, mostrandosi informato di ogni particolare. Quindi, consultati i compagni, lo dichiara nemico del Papa, di Cristo e traditore dei figli, ed emana sentenza di morte. L'Angelini si dispera e piange; ma il sergente non si lascia commuovere ed ordina che il verdetto si compia senza esitazione. I gregari denudano il disgraziato, lasciandogli addosso il panciotto e la camicia; e fattolo inginocchiare, gli impongono di recitare il Credo e il Paternoster. Infine lo colpiscono con tre fucilate e, credutolo morto, si allontanano di là. Taluni, nell'andar via, accortisi che la vittima dava segni di vita, vorrebbero tornare indietro a finirlo coi pugnali; ma uno di loro distoglie i compagni dal truce proponimento, esclamando con gioia feroce: - Così devono trovarsi tutti gli amici di Vittorio Emanuele! L'Angelini, riavutosi dai colpi mortali, si trascina carponi ad una masseria vicina, ove è accolto e curato da mani pietose.
IL CONVEGNO DEL BOSCO PIANELLA
Nell'agosto 1862, i masnadieri delle province di Bari e Lecce, per ordine del comitato centrale romano; convennero al bosco Pianella, nelle adiacenze di Martina Franca, per dare unità direttiva al movimento reazionario e fondere in una grande compagnia tutte le torme fin allora frazionate e disperse. All'adunanza, che fu tenuta nei profondi recessi di una vicina grotta, capace di oltre ducento cavalli, parteciparono il sergente Romano, Mazzeo, Valente, La Veneziana, De Palo, Trinchera, Locaso, Monaco, Terrone, Testino; e tutti riconobbero l'opportunità dell'accordo, nel duplice intendimento di fronteggiare con maggiore vigoria le ostilità sempre più minacciose della truppa ed effettuare con sollecitudine il vagheggiato programma della restaurazione borbonica. Giurati i vincoli dell'alleanza e costituita un'orda di circa ducento uomini, quasi tutti a cavallo, il sergente Romano, che fra quelle turbe destituite d'ogni cultura eccelleva per intelligenza ed autorità, ottenne il comando supremo con il grado di "maggiore", mentre gli altri condottieri, in conformità alle attitudini personali e a seconda del maggiore o minor numero di seguaci fino ad allora capeggiato, furono eletti capitani, sergenti e caporali. Orgoglioso di tanto onore, il Romano si accinse all'opera, proponendosi di esplicare un'azione gagliarda; e poiché la provincia di Bari, ove già si andavano concentrando numerose forze, non porgeva facili speranze di riscossa, pensò, d'accordo con gli altri caporioni, di trasferire il campo delle operazioni nel Brindisino. Pertanto, ai primi di settembre, la grande comitiva era già nella penisola salentina, e quivi per lo più si trattenne fino agli ultimi giorni di novembre. Il vandalismo agrario e le stragi, che per un intero trimestre desolarono quelle cittadinanze, sorpassano ogni immaginazione: smantellate le masserie dei liberali, bruciate le messi, interrotte le comunicazioni, sospeso il traffico: tutta la vita economica e civile della regione fu sottoposta all'arbitrio dei reazionari, la cui baldanza trascese a tali eccessi che agli occhi del popolino e della stessa borghesia parve addirittura imminente il crollo dell'edificio nazionale e il ritorno del decaduto monarca. Ecco gli avvenimenti più considerevoli dell'attività brigantesca in Terra d'Otranto.
IL MASSACRO DI CELLINO
Verso il mezzogiorno del 24 o 25 ottobre, due squadriglie della guardia di Cellino e di San Pietro Vernotico, accompagnate dai rispettivi tenenti e da un plotone di carabinieri a piedi e a cavallo, a circa nove miglia da si erano fermate alla fattoria Angelini, Brindisi. Mentre prendevano ristoro dalla faticosa marcia, videro schierata sulla "Piana" della masseria Santa Teresa, li vicina, una grossa comitiva di briganti. Si comanda l'assalto; ma gli ufficiali, giunti a cinquecento metri dal nemico, volgono le briglie, trascinando nella fuga ignominiosa i militi a piedi, che si disperdono per la campagna circostante. I carabinieri, rimasti soli contro la forte masnada, non si perdono d'animo, e rattenendo l'impeto avverso con un fuoco incessante di fucileria, retrocedono a lento passo in direzione di Cellino.. Ad un certo punto, alcuni fuoriusciti accerchiano due carabinieri a piedi, li atterrano e sono già in procinto di impadronirsene, quando il lombardo Giovanni Arizzi, noncurante della vita, galoppa in soccorso dei camerati e, dopo un'acerrima lotta, in cui rimase ferito lui stesso, li trae a salvamento. All'azione ardimentosa concorsero i carabinieri Biancardi e Piluti delle stazioni di Lecce e Campi Salentina. Arrivati a breve distanza da Cellino, i masnadieri si ritirarono, dando la caccia alle guardie nazionali, che si erano nascoste nei prossimi poderi. Ne scovano dodici, le avvincono con funi e, frustandole come bestie da soma, le spingono sulla masseria Santa Teresa, ove un'orrenda sorte attende i prigionieri. La scena raccapricciante, ivi svoltasi, è narrata dal milite Vitantonio Donadeo, che ebbe salva la vita per uno strano accidente. Ne trascrivo l'autentico, genuino racconto: "Quando arrivammo vicino a Santa Teresa, svillaneggiati e battuti per strada, posero me con gli altri undici prigionieri ginocchioni a terra e in fila, e dissero a Giuseppe Mauro, che fu poscia fucilato: - Tu avevi quattro carlini al giorno come spia sotto Francesco, ed ora ne hai tre sotto Vittorio. E poi, rivolti al Pecoraro ed al Miglietta, pur fucilati, dissero: - Conosciamo che voi siete andati facendo la spia. - Tenevano tutto segnato in un libro che portava il capitano, e dicevano: - I villani non hanno colpa; noi vogliamo i capi della guardia nazionale. Quindi uno dei briganti che era tornato ferito dal combattimento coi carabinieri, disponeva sulla sorte di noi altri, e tutto ad un tratto fu ordinata ed eseguita la fucilazione del Pecoraro, del Mauro e del Miglietta, i quali stavano inginocchiati i primi nella fila di noi altri; ed a misura che dovevano fucilare li facevano mettere faccia a terra, poggiando la bocca del fucile sul collo. Dopo i tre suddetti sventurati, dovea essere fucilato io, e mi ordinarono di mettermi con la faccia a terra, il che avendo io fatto, con lo squallore della morte, gridai: - Madonna del Carmine, aiutatemi! - ed intesi lo scatto del fucile che non dié fuoco. Allora un brigante disse: - Alzati che tu sei salvo, e devi essere veramente devoto alla Madonna del Carmine come lo sono io; le devi fare una gran festa. E dopo aver parlato un poco fra essi loro, fecero alzare da terra me e gli altri otto compagni, con la forbice mi mozzarono un pò l'orecchio sinistro come fecero ad altri sette; due, perché avevano ricevuto dei colpi in testa e la portavano fasciata, ad essi non furono mozzati gli orecchi. Dopo questa operazione, il Capitano si avvicinò a noi e ci disse di andarcene". Il brigante che, commosso dall'invocazione della Vergine, sospese l'iniziato massacro, fu il sergente Romano; e colui che, animato da istinto feroce, mozzò le orecchie ai prigionieri, fu lo Spadafino di Palo del Colle. Altri testimoni oculari aggiungono che i fuoriusciti ventilarono l'idea di recidere il capo ad uno dei catturati ed inviarlo al capitano della Guardia Nazionale di Cellino; ma l'infame proposta non fu eseguita per le implorazioni disperate di quei miseri. E' certo però che Francesco Monaco di Ceglie Massapica con un rasoio tagliò il mento di un cadavere, e fattolo disseccare al sole, e ripostolo nella bisaccia, lo portò via con sé, qual segno e ricordo della vittoria. E' indubitato altresì che alcuni di quei ribaldi conservarono nelle tasche le mutile orecchie dei prigionieri, mostrafldole qua e là, per i campi e le masserie, ai contadini che incontravano durante il percorso. Va ricordato infine, come le salme dei fucilati cellinesi furono date alle fiamme, perché delle odiate spie si disperdessero finanche le ceneri. Tale era l'aberrazione di quelle turbe sciagurate nel cui animo la frequenza delle scelleraggini aveva cancellato ogni traccia di umanità.
L'INVASIONE DI CAROVIGNO
Sull'albeggiare del 21 novembre, la comitiva, dalla masseria Colacorti, ov'erasi fermata fin dalla sera precedente, s'incammina alla volta di Carovigno, uno dei più ardenti focolari di brigantaggio reazionario. Non lungi dall'abitato, il "maggiore" trattiene la sua ciurma e manda all'assalto del corpo di guardia un drappello di dodici briganti a piedi. Come la sentinella Emanuele Patisso, nell'incerto chiarore della notte che già si dilegua, scorge l'avanguardia brigantesca, chiede con voce risoluta: - Chi vive? - Guardia piemontese! - si risponde. E nel dire tali parole i masnadieri piombano sul milite con rapidità fulminea, lo disarmano ed entrati - nel quartiere, fracassano panche, tavole, rastrelliere, quadri, stemmi reali. Sopraggiungono i banditi a cavallo e si riversano "per lo stradone" sparando archibugiate a salve e invitando il popolo alla rivolta. - Fuori i lumi! Fuori i lumi! - si esclama; e immantinente migliaia di lumi sporgono dagli usci e dai balconi, per modo che il paese, come affermano i documenti, è illuminato a giorno. Molti contadini scendono sulle vie e accolgono la masnada con le fiaccole accese e con manifestazioni di giubilo. Gli urli della plebe, espressioni sintomatiche di reazione politica e di riscossa sociale, richiamano alla memoria le torbide giornate del 1799. - Viva la Santa Fede! - si grida - Viva la Madonna! Viva Dio! Viva - Francesco II! Abbasso Vittorio Emanuele! All'impiedi il popolo basso! E una gran calca di popolo delirante segue i ribelli che, col Romano in prima fila, avanzano sulle loro cavalcature, baldanzosi e trionfanti. Assaltano quindi le case dei capitani Azzariti e Brancasi, dei patrioti Simone, Brandi, Santoro, Del Prete e del regio delegato Calò; atterrano la porta d'una rivendita di privative; calpestano le insegne sabaude, e penetrati nella bottega, depredano sigari e vari oggetti. Invadono poscia un pubblico ritrovo appartenente ad un caffettiere liberale, rompono tazze - e bicchieri, infrangono i quadri di Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele. Da ultimo, fattosi già chiaro, obbligano il sacerdote Federico Vacca a seguirli fuori del paese, al santuario della Madonna del Belvedere, ove la moltitudine, inginocchiata e riverente, intona col prete litanie e inni di grazia. Compiuta la funzione sacra, i briganti invitano la folla a rientrare nella borgata e, scambiati auguri di prossimo trionfo, si allontanano per la via di San Vito, in direzione della masseria Badessa. Nessun reato di sangue, tranne qualche lieve ferimento, turbò la clamorosa manifestazione.
IL CONFLITTO DELLA BADESSA
Nelle ore antimeridiane di quel giorno medesimo, come nella borgata limitrofa di San Vito si ha sentore dell'invasione di Carovigno, s'inviano carabinieri e guardie civiche in soccorso di un drappello di militi, che, per disposizione dell'autorità, si trovava in distaccamento alla tenuta Serranova, non lungi dalla Badessa. Le vedette dei masnadieri, che vigilavano dall'alto della fattoria, visto il plotone che avanzava sulla consolare di Brindisi, segnalano ai compagni l'imminente pericolo. Il Romano, osservata la positura e avute dal massaro D'Adamo, ardente borbonico, precise informazioni circa il numero e l'armamento dei nazionali, ordina la banda su due schiere e muove a spron battuto contro i nemici con disegno di accerchiarli. Ma quelli, forniti di buone armi da fuoco, sostengono con intrepidezza l'assalto e, contrastando il terreno a palmo a palmo, raggiungono l'oliveto Argentieri e la masseria De Leonardis, ove si trincerano saldamente. Il Romano, cui premeva di tenere integra la compagine dei suoi e non sacrificar mai gente in imprese di dubbia efficacia, dopo un'ora di accanita lotta, si ritira, trascinando con sé la guardia Catamerò, catturata all'inizio del combattimento. Radunatosi, secondo la consuetudine, il consiglio dei capi, il prigioniero è condannato all'estremo supplizio. Alcuni briganti lo afferrano per i piedi, altri lo costringono al suolo con le braccia e la testa; e il masnadiero tarantino Antonio gli recide la gola con una sciabola o grosso coltello adoperato a mo' di sega.
IL RITORNO AL BOSCO PIANELLA
Dopo il conflitto della Badessa, il Romano, che con la sua tormentosa guerriglia aveva attratto nel Leccese molte forze regolari, pensò di sottrarsi all'urgente pressione della truppa, trasferendosi nella pristina sede di Pianella. Partito dal litorale adriatico, il 21 novembre, per l'istmo collinoso della penisola messapica, fra Brindisi e Taranto, - discese nell'opposto versante. La notte del 22 si fermò con tutta la banda alla fattoria Santoria, nei dintorni di Torre Santa Susanna, e la mattina seguente, provedutosi colà di viveri e di biada, si accinse a partire, dichiarando in arresto il massaro De Biase, reo di avere obbligato i suoi contadini ad acclamare Vittorio Emanuele re d'Italia. Indotti dalle vive insistenze dei familiari di quell'infelice, i masnadieri consentirono di rilasciarlo, previo riscatto di mille piastre; e poiché quelli ne offrivano solo trecento che avevano a disposizione, rigettarono la proposta con parole di sdegno. Gli sventurati, lacrimando, chiesero una breve dilazione per procacciarsi la somma vistosa; ma i banditi, specialmente Pizzichicchio che conduceva le trattative, non accolsero neppure tale richiesta e trascinarono via, in groppa ad un cavallo, il vecchio patriota, che nella macchia di Avetrana incontrò la pena di morte con armi da fuoco e da taglio. Dalla fattoria Santoria,- nelle ore antimeridiane del 23 i ribelli prendono la via di Erchie e sostano alcune ore presso il piccolo villaggio, dove, a somiglianza di Grottaglie, Crispiano, Statti, Carovigno, Palagianello ed altri Comuni del Leccese, si rinnovano le solite dimostrazioni popolari inneggianti al Borbone e alla fede. Verso mezzogiorno si allontanano di là, incamminandosi verso la marina ionica; durante la notte successiva si attardano fra i boschi di Maruggio, nei quali abbandonano un compagno di Santeramo in Colle, moribondo per le gravi ferite riportate in Erchie; e sul mattino del 24, per i territori di Grottaglie, Massafra, Mottola, devastando masserie, rompendo fili telegrafici e schivando fra mille peripezie gli incontri con la truppa, arrivano al bosco Pianella, ultima tappa del periglioso e lungo itinerario. In questo mezzo il Romano, imbaldanzito di tanti prosperi successi, medita un folle disegno: fondersi con la banda Crocco, muovere su Brindisi e impadronirsi della Terra d'Otranto; indi, raccolte grandi masse di popolo, correre su Gioia, Noci ed altri comuni del Barese,- inalberando dappertutto il - vessillo della controrivoluzione. Allettato dal chimerico piano, spedì messi al Donatello, che si trovava in Basilicata, e mandò in giro per le campagne Otto manipoli di arrolatori, affine di raccogliere gente, armi e cavalli. Se non che Carmine Crocco, cui la politica serviva di pretesto ad accumular quattrini, dapprima richiese alcuni giorni di tempo per una definitiva risposta, e poi, adducendo futili motivi, dichiarò senz'altro di non poter assecondare l'iniziativa del temerario collega. Il sergente Romano, intanto, rafforzata con nuove reclute la compagnia, esce dal bosco di Pianella in cerca di nuovi trionfi; ma le milizie italiane, rese ormai vigili ed esperte dalla dura esperienza, lo attendono al varco.
LA DISFATTA DELLA MASSERTA MONACI
Sul cadere del primo dicembre, l'intera compagnia si ferma alla masseria dei Monaci di San Domenico, tra Noci ed Alberobello. Erano lì presenti circa centosettanta uomini con tutti i caporioni del brigantaggio salentino e barese: Romano, La Veneziana, Pizzichicchio, Monaco, Valente, Quartulli, Locaso, De Palo ed altri. Il sedicente maggiore ordina alla ciurma di scendere da cavallo e di riposarsi nell'ampio caseggiato, mentre lui, espertissimo dei luoghi, con quaranta seguaci, va in cerca di viveri e foraggi. Molti dei banditi si andavano adagiando nei fienili, ed altri si apprestavano a desinare o attendevano al governo dei cavalli, quando, d'improvviso, la sedicesima Compagnia del decimo Reggimento di Fanteria, condotta dal capitano Molgora, sbuca fuori dalle circostanti macchie e piomba sui masnadieri scompigliati e dispersi. La Veneziana, Pizzichicchio e Valente, chiamati a raccolta i compagni, affrontano i soldati e si battono coraggiosamente in prima linea. Mentre la mischia infuria e la banda già ripiega, sopravviene il Romano, che era atteso con ansia; ma scorto il disordine dei suoi e il sopravvento della truppa, getta via le insegne del comando e, postosi in capo il berretto di un compagno, volge le terga. Alla fuga del condottiero segue una rotta piena ed irreparabile: muore La Veneziana, son feriti Pizzichicchio e Quartulli, cade prigioniero Scipione De Palo con altri nove banditi, e son catturati più di ottanta cavalli con armi e bagagli. Trentacinque briganti, che riposavano in un pagliaio e non presero parte alla zuffa, sfuggirono per miracolo alla cattura; dei restanti, molti, col favore delle tenebre sopraggiunte, se ne andarono - ai loro paesi; altri, dopo essersi aggirati per molte ore fra i boschi, tornarono alla grotta Pianella. Capi e gregari, superstiti di una grave sconfitta, tennero un'adunanza; e dopo una vivace discussione, durante la quale si coprirono di villanie, accusandosi d'imperizia e di viltà, decisero lo scioglimento della comitiva. La sera del 7 dicembre, i vari capi partono per vie diverse: Valente, con sedici o diciassette compagni per Carovigno; Monaco con altrettanti per Ceglie Messapica; il Capraro per Ginosa; e Pizzichicchio, riavutosi dalla ferita, per la Basilicata. Quindici fuoriusciti, avendo espressa la risoluta volontà di abbandonare la masnada, sono dichiarati vili, e quindi licenziati. Il Romano, diminuito di autorità e di grado, resta in quei luoghi con una cinquantina dei più antichi e fedeli proseliti. Era completa la dissoluzione, imminente la fine.
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di: Antonio Lucarelli - da: "AVVENTURE ITALIANE" Vallecchi Editore, Firenze, 1961
LE GESTA DEL BRIGANTAGGIO
Nell'intervallo di tempo che corse dall'estate del 1861 all'autunno del 1863 si svolsero in Puglia le gesta più formidabili del brigantaggio; il quale per audacia di tentativi e per numero di seguaci, arrivò a tal segno da infrangere la fiducia d'ogni classe di cittadini nelle nuove istituzioni. A nord, fra il basso Molise, il Beneventano e la Capitanata, imperversavano le bande di Varanelli, Schiavone, Del Sambro e Caruso di Torremaggiore, che era il più sanguinano e crudele dei briganti pugliesi; nel montuoso Gargano infuriava con Palumbo, Sammarchese, Scirpoli, Paletta ed altri fuoriusciti il feroce Gatta, orbo da un occhio; e a mezzogiorno della medesima provincia, tiranneggiava Palliacello: erano centinaia e centinaia di predoni, che sovente si adunavano al bosco delle grotte, non lungi dal Fortore, ove anche convenivano, per macchinare più arrischiate imprese, Crocco, Minelli, Cicogna e simili protagonisti della reazione borbonica. A sud, nella penisola salentina, scorazzavano altre numerose, ma piccole bande, capitanate da La Veneziana, Mazzeo, Trinchera, Monaco, Valente, Scarati, Perrone, Cristilli e Locaso, che con una orda composta in gran parte di contadini di Santeramo batteva gli estremi limiti di Puglia, Basilicata e Calabria. Al centro della regione, in Terra di Bari, oltre al sergente Romano, correvano le nostre pianure Francesco Saverio l'Abbate di Polignano, Cataldo Franchi di Ruvo, Luigi Terrone di Corato, Riccardo Carbone e Riccardo Colasuonno (Ciucciariello) di Andria; Marco e Scipione de Palo di Terlizzi, Bellettieri di Spinazzola ed altri minori duci. Alle cotidiana rappresaglia di torme indigene si aggiungevano qui le irruzioni delle masnade finitime, favorite dall'intermedia positura dell'agro barese. Carmine Donatello, che stanziava d'ordinario sulle rive dell'Ofanto, Giuseppe Nicola Summa, che soggiornava nei boschi di Lagopesole, Tortora, Cavalcante, Coppolone, Serravalle, il Capraro, Nenna Nenna e Pizzichicchio, il quale aveva il suo quartiere fra le macchie di San Marzano, in Terra d'Otranto; quasi tutti i capi banda di Basilicata e Lecce, a brevi intervalli, connivente il Romano, piombavano sull'agro barese, apportandovi calamità inaudite. Gravi minacce incombevano sulla provincia di Bari nell'autunno del 1861. Un ufficio riservatissimo, inviato dalla nostra prefettura al presidente della Gran Corte Criminale di Trani, riferendosi agli arresti compiuti nel comune di Gioia in conseguenza della nota sommossa, si esprime così circa il contegno delle nostre popolazioni:
"Credo opportuno mettere sotto gli occhi di V.S. che la condizione dei tempi che corrono, è più grave di quella in cui furono eseguiti gli arresti; che la ridicola credenza dell'avvenuta o possibile restorazione dei Borboni è generale nel basso popolo, che l'impudenza nell'agitarsi e spargere tali notizie, precisamente dalle famiglie dei detenuti, è massima, che il Governo è vivamente preoccupato dalla possibilità di una invasione generale nel Barese dei numerosi briganti concentrati sul confine della Basilicata".
E vari dispacci, anch'essi urgenti e riservati, spediti nei primi di ottobre dal Ministero degli Interni al nostro governatore, esortavano le autorità a vigilare sui movimenti delle torme lucane, le quali ordinavano tentativi reazionari ed incursioni ai danni di queste ubertose contrade. Infatti, nel successivo novembre, il generale carlista José Boryes, che aveva assunto la direzione suprema delle ciurme operanti nella Basilicata, apparve minaccioso tra le colline di Altamura; ma, fossero i dissensi e le gelosie che allora agitavano la comitiva del Donatello, invido e sospettoso della presenza e della superiorità dell'avventuriero catalano, fossero le provvidenze dei nostri governanti o altri motivi che non ci è dato conoscere, la spedizione si fermò, a quanto pare, sul confine delle due province, e non ebbe ulteriori effetti. Di lì a tre mesi, però fu ritentata, e compiuta. Duecento banditi a cavallo, agli ordini di Crocco e compartecipe il Romano, il 24 febbraio 1861 entrano in Terra di Bari e avanzano fin sotto le campagne di Andria e di Corato. Qui uccidono a fucilate alcuni militi coratini che andavano in cerca di sbandati, depredano le masserie e, fatto un copioso bottino, riprendono il cammino in direzione ovest. A tali notizie il maggiore Alfonso Grilli, della guardia nazionale di Corato, corre sulla Murgia con un centinaio di gregari, ansiosi di vendicare la morte dei commilitoni: ma non trovò la masnada e, recando con sé i cadaveri delle vittime, rientrò in città fra i pianti e l'esasperazione dei conterranei. I predoni, frattanto, si fermano alla masseria Viti, in tenimento altamurano, occupano la strada fra Toritto e Altamura e, intercettate le corrispondenze postali e telegrafiche, spadroneggiano in quei luoghi con ogni sorta di spoliazioni. Il generale Regis, sorpreso dall'audace scorreria, ordina una celere concentrazione di truppe sulle posizioni occupate dai borbonici; da Gioia, Noci, Alberobello, Acquaviva, Barletta, Matera ed altri comuni partono manipoli di guardie nazionali e soldati del cinquantesimo fanteria; onde, quelli vedendosi minacciati di avvolgimento, fuggono via e, toccando la casa colonica Mercadante, la Risecca di Grumo, i boschi di Cassano e Santeramo, pervengono alla selva di San Basile, ove indugiano alcune ore. Il comandante italiano dispone per telegrafo l'avanzata di qualche compagnia dai quartieri tarantini allo scopo di precludere la ritirata ai fuggiaschi; ma questi, più agili ed. accorti, sfuggono agli inseguitori e si mettono in salvo fra i boschi di Craco. Nella prima quindicina di marzo un'altra comitiva, se non forse la medesima, composta di centoquaranta uomini, riappare sulle balze altamurane, soggiorna nell'abitato rurale di Claudio Melodia ed occupa il castello di Guaragnone. Agguerrite colonne di fanti e guardie civiche marciano colà; ma, secondo il solito, al primo apparire delle nostre milizie, i briganti si dileguano. Non trascorre un mese ed un'altra invasione si effettua da parte di Ninco Nanco, che, attraversate le Murge di Spinazzola, minaccia con le bande riunite la nostra pianura. Anche in questa emergenza la guardia coratina, sostenuta da un plotone di carabinieri, affronta la masnada, che, dopo una fugace scaramuccia, abbandona le posizioni, lasciando sul terreno un cadavere e quattro cavalli. Ai primi di maggio la stessa banda, sorpresa dai cavalleggeri del Mennuni di Genzano, viene gravemente sconfitta; e il tenente generale Cosenz partecipa la lieta novella ai nostri comuni col seguente dispaccio inviato da Bari alle sette pomeridiane del 9maggio 1862:
"Colonna Davide Mennuni ha disfatto comitiva Ninco Nanco. 15 briganti uccisi, molti feriti, ferito Ninco Nanco, cavalli ed armi abbandonati"
Il Prefetto: COSENZ
L'esultanza fu assai breve. Di lì a pochi giorni la compagnia del sergente Romano comparve nei parchi delle Monache Chiariste e nel bosco municipale Bonelli, presso Noci. Un plotone di cinquanta militi muove per quei luoghi; ma, di fronte al numero soverchiante dei nemici, retrocede e si ferma sulla Murgia d'Albanese, aspettando rinforzi chiesti con urgenza da Bari e da Taranto. Il Romano, informato delle intenzioni avversarie, lascia il territorio di Noci e si rifugia nella foresta di Pianella. Il 15 giugno, banditi e guardie civiche di Martina vengono alle mani nelle vicinanze della masseria Marrocco; il giorno 8 i masnadieri assaltano sull'imbrunire la fattoria del Chiancarello, appartenente ai signori Cassano di Gioia, e ucciso il fittavolo Domenico Pugliese di Putignano, depredano armi, cavalli ed oggetti di considerevole valore; il 12 commettono ruberie e ricatti nel territorio di Santeramo; il 19 contristano di nuovo le adiacenze di Noci, ove la tranquillità cittadina è ognora turbata "perché i malviventi si fanno vedere in punti diversi, ora uniti ed ora divisi"; fra il 20 e il 25, devastano i campi e le masserie di Alberobello, Cisternino e Locorotondo, e negli ultimi giorni del mese tornano ad occultarsi fra gli inospiti covi di Pianella per prendere nuova lena e commettere nuovi orrori. Così passano i giorni queste nomadi turbe: è un agitarsi continu6 al gelido soffio della tramontana e al torrido sole dell'estate, fra le macchie spinose, che lacerano le carni, e le buie caverne che corrodono le fibre; è un correre vertiginoso ed ansante interrotto da fugaci tregue, una vita di torture inenarrabili, cui pone termine la fucilazione o la galera! Tener dietro ai movimenti disordinati e molteplici della banda Romano, sarebbe una fatica assai dura e fors'anche priva di interesse storico: barbari eccidi, effimeri trionfi, rotte sanguinose, estorsioni, rapine, vandalismi compiuti sempre in nome del sovrano e della fede, ecco in brevi parole la storia, triste ed uniforme, della comitiva. Sorvolo sui fatti di secondaria importanza e mi avvio rapidamente alla fine, indugiandomi sugli episodi più notevoli.
L'ASSALTO AD ALBEROBELLO
In uno degli ultimi giorni di luglio, le guardie civiche di Alberobello, perlustrando le finitime selve, si presentano alla masseria dei Monaci di San Domenico, frequente rifugio del Romano, e fatta una perquisizione, sequestrano sedici pacchi di cartucce e catturano il reticente guardiano. Di ciò informati, i banditi risolvono di infliggere subito ai temerari militi un'esemplare punizione. Sul declinare del giorno 26, il sergente Romano chiama a raccolta la ciurma, e schieratala in ordine militare con opportuni fiancheggiatori e vedette, muove sulla borgata. Giunti verso le dieci della sera a poco meno di un miglio dall'abitato, i masnadieri si fermano, e poiché scorgono ancora delle luci e odono dei canti, rimandano l'aggressione a notte più inoltrata. In questo mezzo, favoriti dall'oscurità, pervengono al Romano alcuni messaggeri di quel Comune, fra i quali, secondo le noti4e di autorevoli documenti, ci sarebbe qualche ufficiale della guardia civica, complice del misfatto. Ottenuti precisi ragguagli e prese le ultime disposizioni, uno stuolo di trenta fuoriusciti, staccatisi dalla masnada, va all'assalto con passi guardinghi e silenziosi. Il milite Tommaso Locorotondo, che era di sentinella, intravveduta fra le tenebre l'insidia, grida : - Alto Chi va là? Ma non ha proferite queste parole che dieci briganti gli sono addosso, lo disarmano e lo legano, imponendogli di tacere. Quindi, con le baionette innastate, invadono il quartiere e domandano dell'ufficiale di guardia. A tale ingiunzione si presenta il caporale Antonio Greco, da cui chiedono, e ottengono immediatamente, la restituzione delle cartucce sequestrate alla masseria dei Monaci. Intanto i militi, che erano li presenti, sbigottiti dall'ingrata sorpresa, tentano di fuggire; ma i banditi, coi fucili in pugno, comandano loro di non muoversi, pena la vita. Alcuni, per disgrazia, trasgrediscono agli ordini e vanno a rifugiarsi in una stanza contigua barricandovisi dentro. I predoni, allora, infrangono la porta, uccidono la guardia Curri, alla quale tolgono la giacca e le scarpe, e feriscono i militi De Felice, De Leonardis e Castellano. Poscia mettono a soqquadro ogni cosa; prendono una trentina di fucili con altrettante baionette, un tamburo, sei daghe, venti bandiere ed altri oggetti. Da ultimo, schierate a due a due le guardie, se le trascinano dietro, parte libere, parte avvinte con funi, sulla via di Martina. Giunti però all'estramurale, ed impietositi dalle lacrime di quegli infelici, li lasciano andar via. L'aggressione fu compiuta in un quarto d'ora!
GLI ECCIDI DEL 6 AGOSTO
Sul cadere dello stesso mese di luglio, fra i seguaci del Romano erano sorte gravi discordie, per cui un gruppo numeroso di fuoriusciti, Cecere, Guarini, Convertini e Chirico di Cisternino con altri compagni, avevano disertato, aggregandosi alla comitiva di un capobanda napoletano. Poscia, vedendosi deboli e mal protetti, tornarono in cerca del vecchio duce, che allora soggiornava nelle campagne di Ostuni, Locorotondo e Alberobello. Come i reduci briganti si avvicinano ai nascondigli già noti, avvistati dalle sentinelle e accolti a fucilate, si danno alla fuga; ma due di essi, Vitantonio Cecere e Francesco Chirico, son catturati dai contadini che per caso lavoravano in quei dintorni, e in particolar modo da un tal Riccardo Tanzarella di Ostuni, che, intuito il movente della fuga e punto persuaso delle loro dichiarazioni, insiste presso i compagni, perché sian trattenuti e consegnati alle autorità. Mentre si discute sul da farsi, sopraggiungono due massari, Francesco d'Errico e Francesco Seleraro, occulti ricettatori del malandrinaggio; i quali, facendosi mallevadori dell'onestà di quei furfanti, non solo dissuadono il Tanzarella dal temerario proposito e ne ottengono la liberazione, ma intercedono presso il Romano, perché li accolga di nuovo alla sua dipendenza. Riammessi così nella compagnia, implorano dal sergente soddisfazione e vendetta delle patite ingiurie; l'uno, Vitantonio Cecere, contro il Tanzarella che li aveva esposti a sì grave pericolo; l'altro, Francesco Chirico, contro il liberale Oronzo Terruli, agricoltore di quella contrada che nel giugno precedente lo aveva denunciato come un pericoloso reazionario, costringendolo ad abbandonar la famiglia. Il capitano accondiscende alle voglie dei militi ed ordina che la spedizione punitiva si compia, rapida e spietata. Sul tramonto del 6 agosto, un manipolo di codesti forsennati sorprendono il Tanzarella presso la sua "casedda", il "trullo" caratteristico di quei luoghi, lo acciuffano, gli avvincono le braccia con una corda in presenza degli atterriti familiari, e lo trascinano a viva forza nella vicina selva. Verso le undici della notte, la compagnia si scinde: gli uni rimangono con il condottiero in custodia del catturato, gli altri muovono sulla masseria Marangiuli, ove si trovava Oronzo Terruli. Questi, rassegnato all'inevitabile destino, ma risoluto a vender cara la vita, da un balcone respinge gli aggressori a fucilate e ferisce gravemente un masnadiero di Viareggio, che vien subito condotto alla presenza del Romano. Come l'impulsivo sergente scorge il compagno ferito e barcollante, preso da repentino furore, ordina, per rappresaglia, l'immediata fucilazione del prigioniero. Il povero contadino implora la vita; ma quegli, acceso dall'ira, non recede dal suo proposito, sì che il Tanzarella cade fucilato nel silenzio delle tenebre. Esegnita la condanna, accorrono tutti alla masseria, sfondano le porte e, saliti al primo piano, ammazzano il vecchio Marangiuli, che era congiunto e socio del Terruli nell'azienda agricola. Questi si rifugia sotto un letto; ma è tratto fuori dal Chirico, suo implacabile nemico, che, avutolo nelle mani, esclama: - Assassino traditore! Mi hai fatto lasciare i figli miei! - E anche il Terruli cade trafitto da numerosi proiettili e da ventisei pugnalate.
IL MARTIRIO DI VITO ANGELINI
Di li a pochi giorni, sulle prime ore della mattina, un branco di quei fanatici si reca alla masseria Serinello, dove soleva dimorare l'agricoltore Vito Angelini di Putignano, fervido seguace delle istituzioni liberali. Trovatolo colà, lo traggono in arresto a nome di Francesco II, gli legano strettamente i polsi e lo conducono al bosco De Laurentis, fra Santeramo e Gioia. Qui attende il Romano, che lo sottopone ad una specie di interrogatorio e gli chiede: - notizie dell'opera spiegata da lui e dai congiunti nella recente rivoluzione, mostrandosi informato di ogni particolare. Quindi, consultati i compagni, lo dichiara nemico del Papa, di Cristo e traditore dei figli, ed emana sentenza di morte. L'Angelini si dispera e piange; ma il sergente non si lascia commuovere ed ordina che il verdetto si compia senza esitazione. I gregari denudano il disgraziato, lasciandogli addosso il panciotto e la camicia; e fattolo inginocchiare, gli impongono di recitare il Credo e il Paternoster. Infine lo colpiscono con tre fucilate e, credutolo morto, si allontanano di là. Taluni, nell'andar via, accortisi che la vittima dava segni di vita, vorrebbero tornare indietro a finirlo coi pugnali; ma uno di loro distoglie i compagni dal truce proponimento, esclamando con gioia feroce: - Così devono trovarsi tutti gli amici di Vittorio Emanuele! L'Angelini, riavutosi dai colpi mortali, si trascina carponi ad una masseria vicina, ove è accolto e curato da mani pietose.
IL CONVEGNO DEL BOSCO PIANELLA
Nell'agosto 1862, i masnadieri delle province di Bari e Lecce, per ordine del comitato centrale romano; convennero al bosco Pianella, nelle adiacenze di Martina Franca, per dare unità direttiva al movimento reazionario e fondere in una grande compagnia tutte le torme fin allora frazionate e disperse. All'adunanza, che fu tenuta nei profondi recessi di una vicina grotta, capace di oltre ducento cavalli, parteciparono il sergente Romano, Mazzeo, Valente, La Veneziana, De Palo, Trinchera, Locaso, Monaco, Terrone, Testino; e tutti riconobbero l'opportunità dell'accordo, nel duplice intendimento di fronteggiare con maggiore vigoria le ostilità sempre più minacciose della truppa ed effettuare con sollecitudine il vagheggiato programma della restaurazione borbonica. Giurati i vincoli dell'alleanza e costituita un'orda di circa ducento uomini, quasi tutti a cavallo, il sergente Romano, che fra quelle turbe destituite d'ogni cultura eccelleva per intelligenza ed autorità, ottenne il comando supremo con il grado di "maggiore", mentre gli altri condottieri, in conformità alle attitudini personali e a seconda del maggiore o minor numero di seguaci fino ad allora capeggiato, furono eletti capitani, sergenti e caporali. Orgoglioso di tanto onore, il Romano si accinse all'opera, proponendosi di esplicare un'azione gagliarda; e poiché la provincia di Bari, ove già si andavano concentrando numerose forze, non porgeva facili speranze di riscossa, pensò, d'accordo con gli altri caporioni, di trasferire il campo delle operazioni nel Brindisino. Pertanto, ai primi di settembre, la grande comitiva era già nella penisola salentina, e quivi per lo più si trattenne fino agli ultimi giorni di novembre. Il vandalismo agrario e le stragi, che per un intero trimestre desolarono quelle cittadinanze, sorpassano ogni immaginazione: smantellate le masserie dei liberali, bruciate le messi, interrotte le comunicazioni, sospeso il traffico: tutta la vita economica e civile della regione fu sottoposta all'arbitrio dei reazionari, la cui baldanza trascese a tali eccessi che agli occhi del popolino e della stessa borghesia parve addirittura imminente il crollo dell'edificio nazionale e il ritorno del decaduto monarca. Ecco gli avvenimenti più considerevoli dell'attività brigantesca in Terra d'Otranto.
IL MASSACRO DI CELLINO
Verso il mezzogiorno del 24 o 25 ottobre, due squadriglie della guardia di Cellino e di San Pietro Vernotico, accompagnate dai rispettivi tenenti e da un plotone di carabinieri a piedi e a cavallo, a circa nove miglia da si erano fermate alla fattoria Angelini, Brindisi. Mentre prendevano ristoro dalla faticosa marcia, videro schierata sulla "Piana" della masseria Santa Teresa, li vicina, una grossa comitiva di briganti. Si comanda l'assalto; ma gli ufficiali, giunti a cinquecento metri dal nemico, volgono le briglie, trascinando nella fuga ignominiosa i militi a piedi, che si disperdono per la campagna circostante. I carabinieri, rimasti soli contro la forte masnada, non si perdono d'animo, e rattenendo l'impeto avverso con un fuoco incessante di fucileria, retrocedono a lento passo in direzione di Cellino.. Ad un certo punto, alcuni fuoriusciti accerchiano due carabinieri a piedi, li atterrano e sono già in procinto di impadronirsene, quando il lombardo Giovanni Arizzi, noncurante della vita, galoppa in soccorso dei camerati e, dopo un'acerrima lotta, in cui rimase ferito lui stesso, li trae a salvamento. All'azione ardimentosa concorsero i carabinieri Biancardi e Piluti delle stazioni di Lecce e Campi Salentina. Arrivati a breve distanza da Cellino, i masnadieri si ritirarono, dando la caccia alle guardie nazionali, che si erano nascoste nei prossimi poderi. Ne scovano dodici, le avvincono con funi e, frustandole come bestie da soma, le spingono sulla masseria Santa Teresa, ove un'orrenda sorte attende i prigionieri. La scena raccapricciante, ivi svoltasi, è narrata dal milite Vitantonio Donadeo, che ebbe salva la vita per uno strano accidente. Ne trascrivo l'autentico, genuino racconto: "Quando arrivammo vicino a Santa Teresa, svillaneggiati e battuti per strada, posero me con gli altri undici prigionieri ginocchioni a terra e in fila, e dissero a Giuseppe Mauro, che fu poscia fucilato: - Tu avevi quattro carlini al giorno come spia sotto Francesco, ed ora ne hai tre sotto Vittorio. E poi, rivolti al Pecoraro ed al Miglietta, pur fucilati, dissero: - Conosciamo che voi siete andati facendo la spia. - Tenevano tutto segnato in un libro che portava il capitano, e dicevano: - I villani non hanno colpa; noi vogliamo i capi della guardia nazionale. Quindi uno dei briganti che era tornato ferito dal combattimento coi carabinieri, disponeva sulla sorte di noi altri, e tutto ad un tratto fu ordinata ed eseguita la fucilazione del Pecoraro, del Mauro e del Miglietta, i quali stavano inginocchiati i primi nella fila di noi altri; ed a misura che dovevano fucilare li facevano mettere faccia a terra, poggiando la bocca del fucile sul collo. Dopo i tre suddetti sventurati, dovea essere fucilato io, e mi ordinarono di mettermi con la faccia a terra, il che avendo io fatto, con lo squallore della morte, gridai: - Madonna del Carmine, aiutatemi! - ed intesi lo scatto del fucile che non dié fuoco. Allora un brigante disse: - Alzati che tu sei salvo, e devi essere veramente devoto alla Madonna del Carmine come lo sono io; le devi fare una gran festa. E dopo aver parlato un poco fra essi loro, fecero alzare da terra me e gli altri otto compagni, con la forbice mi mozzarono un pò l'orecchio sinistro come fecero ad altri sette; due, perché avevano ricevuto dei colpi in testa e la portavano fasciata, ad essi non furono mozzati gli orecchi. Dopo questa operazione, il Capitano si avvicinò a noi e ci disse di andarcene". Il brigante che, commosso dall'invocazione della Vergine, sospese l'iniziato massacro, fu il sergente Romano; e colui che, animato da istinto feroce, mozzò le orecchie ai prigionieri, fu lo Spadafino di Palo del Colle. Altri testimoni oculari aggiungono che i fuoriusciti ventilarono l'idea di recidere il capo ad uno dei catturati ed inviarlo al capitano della Guardia Nazionale di Cellino; ma l'infame proposta non fu eseguita per le implorazioni disperate di quei miseri. E' certo però che Francesco Monaco di Ceglie Massapica con un rasoio tagliò il mento di un cadavere, e fattolo disseccare al sole, e ripostolo nella bisaccia, lo portò via con sé, qual segno e ricordo della vittoria. E' indubitato altresì che alcuni di quei ribaldi conservarono nelle tasche le mutile orecchie dei prigionieri, mostrafldole qua e là, per i campi e le masserie, ai contadini che incontravano durante il percorso. Va ricordato infine, come le salme dei fucilati cellinesi furono date alle fiamme, perché delle odiate spie si disperdessero finanche le ceneri. Tale era l'aberrazione di quelle turbe sciagurate nel cui animo la frequenza delle scelleraggini aveva cancellato ogni traccia di umanità.
L'INVASIONE DI CAROVIGNO
Sull'albeggiare del 21 novembre, la comitiva, dalla masseria Colacorti, ov'erasi fermata fin dalla sera precedente, s'incammina alla volta di Carovigno, uno dei più ardenti focolari di brigantaggio reazionario. Non lungi dall'abitato, il "maggiore" trattiene la sua ciurma e manda all'assalto del corpo di guardia un drappello di dodici briganti a piedi. Come la sentinella Emanuele Patisso, nell'incerto chiarore della notte che già si dilegua, scorge l'avanguardia brigantesca, chiede con voce risoluta: - Chi vive? - Guardia piemontese! - si risponde. E nel dire tali parole i masnadieri piombano sul milite con rapidità fulminea, lo disarmano ed entrati - nel quartiere, fracassano panche, tavole, rastrelliere, quadri, stemmi reali. Sopraggiungono i banditi a cavallo e si riversano "per lo stradone" sparando archibugiate a salve e invitando il popolo alla rivolta. - Fuori i lumi! Fuori i lumi! - si esclama; e immantinente migliaia di lumi sporgono dagli usci e dai balconi, per modo che il paese, come affermano i documenti, è illuminato a giorno. Molti contadini scendono sulle vie e accolgono la masnada con le fiaccole accese e con manifestazioni di giubilo. Gli urli della plebe, espressioni sintomatiche di reazione politica e di riscossa sociale, richiamano alla memoria le torbide giornate del 1799. - Viva la Santa Fede! - si grida - Viva la Madonna! Viva Dio! Viva - Francesco II! Abbasso Vittorio Emanuele! All'impiedi il popolo basso! E una gran calca di popolo delirante segue i ribelli che, col Romano in prima fila, avanzano sulle loro cavalcature, baldanzosi e trionfanti. Assaltano quindi le case dei capitani Azzariti e Brancasi, dei patrioti Simone, Brandi, Santoro, Del Prete e del regio delegato Calò; atterrano la porta d'una rivendita di privative; calpestano le insegne sabaude, e penetrati nella bottega, depredano sigari e vari oggetti. Invadono poscia un pubblico ritrovo appartenente ad un caffettiere liberale, rompono tazze - e bicchieri, infrangono i quadri di Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele. Da ultimo, fattosi già chiaro, obbligano il sacerdote Federico Vacca a seguirli fuori del paese, al santuario della Madonna del Belvedere, ove la moltitudine, inginocchiata e riverente, intona col prete litanie e inni di grazia. Compiuta la funzione sacra, i briganti invitano la folla a rientrare nella borgata e, scambiati auguri di prossimo trionfo, si allontanano per la via di San Vito, in direzione della masseria Badessa. Nessun reato di sangue, tranne qualche lieve ferimento, turbò la clamorosa manifestazione.
IL CONFLITTO DELLA BADESSA
Nelle ore antimeridiane di quel giorno medesimo, come nella borgata limitrofa di San Vito si ha sentore dell'invasione di Carovigno, s'inviano carabinieri e guardie civiche in soccorso di un drappello di militi, che, per disposizione dell'autorità, si trovava in distaccamento alla tenuta Serranova, non lungi dalla Badessa. Le vedette dei masnadieri, che vigilavano dall'alto della fattoria, visto il plotone che avanzava sulla consolare di Brindisi, segnalano ai compagni l'imminente pericolo. Il Romano, osservata la positura e avute dal massaro D'Adamo, ardente borbonico, precise informazioni circa il numero e l'armamento dei nazionali, ordina la banda su due schiere e muove a spron battuto contro i nemici con disegno di accerchiarli. Ma quelli, forniti di buone armi da fuoco, sostengono con intrepidezza l'assalto e, contrastando il terreno a palmo a palmo, raggiungono l'oliveto Argentieri e la masseria De Leonardis, ove si trincerano saldamente. Il Romano, cui premeva di tenere integra la compagine dei suoi e non sacrificar mai gente in imprese di dubbia efficacia, dopo un'ora di accanita lotta, si ritira, trascinando con sé la guardia Catamerò, catturata all'inizio del combattimento. Radunatosi, secondo la consuetudine, il consiglio dei capi, il prigioniero è condannato all'estremo supplizio. Alcuni briganti lo afferrano per i piedi, altri lo costringono al suolo con le braccia e la testa; e il masnadiero tarantino Antonio gli recide la gola con una sciabola o grosso coltello adoperato a mo' di sega.
IL RITORNO AL BOSCO PIANELLA
Dopo il conflitto della Badessa, il Romano, che con la sua tormentosa guerriglia aveva attratto nel Leccese molte forze regolari, pensò di sottrarsi all'urgente pressione della truppa, trasferendosi nella pristina sede di Pianella. Partito dal litorale adriatico, il 21 novembre, per l'istmo collinoso della penisola messapica, fra Brindisi e Taranto, - discese nell'opposto versante. La notte del 22 si fermò con tutta la banda alla fattoria Santoria, nei dintorni di Torre Santa Susanna, e la mattina seguente, provedutosi colà di viveri e di biada, si accinse a partire, dichiarando in arresto il massaro De Biase, reo di avere obbligato i suoi contadini ad acclamare Vittorio Emanuele re d'Italia. Indotti dalle vive insistenze dei familiari di quell'infelice, i masnadieri consentirono di rilasciarlo, previo riscatto di mille piastre; e poiché quelli ne offrivano solo trecento che avevano a disposizione, rigettarono la proposta con parole di sdegno. Gli sventurati, lacrimando, chiesero una breve dilazione per procacciarsi la somma vistosa; ma i banditi, specialmente Pizzichicchio che conduceva le trattative, non accolsero neppure tale richiesta e trascinarono via, in groppa ad un cavallo, il vecchio patriota, che nella macchia di Avetrana incontrò la pena di morte con armi da fuoco e da taglio. Dalla fattoria Santoria,- nelle ore antimeridiane del 23 i ribelli prendono la via di Erchie e sostano alcune ore presso il piccolo villaggio, dove, a somiglianza di Grottaglie, Crispiano, Statti, Carovigno, Palagianello ed altri Comuni del Leccese, si rinnovano le solite dimostrazioni popolari inneggianti al Borbone e alla fede. Verso mezzogiorno si allontanano di là, incamminandosi verso la marina ionica; durante la notte successiva si attardano fra i boschi di Maruggio, nei quali abbandonano un compagno di Santeramo in Colle, moribondo per le gravi ferite riportate in Erchie; e sul mattino del 24, per i territori di Grottaglie, Massafra, Mottola, devastando masserie, rompendo fili telegrafici e schivando fra mille peripezie gli incontri con la truppa, arrivano al bosco Pianella, ultima tappa del periglioso e lungo itinerario. In questo mezzo il Romano, imbaldanzito di tanti prosperi successi, medita un folle disegno: fondersi con la banda Crocco, muovere su Brindisi e impadronirsi della Terra d'Otranto; indi, raccolte grandi masse di popolo, correre su Gioia, Noci ed altri comuni del Barese,- inalberando dappertutto il - vessillo della controrivoluzione. Allettato dal chimerico piano, spedì messi al Donatello, che si trovava in Basilicata, e mandò in giro per le campagne Otto manipoli di arrolatori, affine di raccogliere gente, armi e cavalli. Se non che Carmine Crocco, cui la politica serviva di pretesto ad accumular quattrini, dapprima richiese alcuni giorni di tempo per una definitiva risposta, e poi, adducendo futili motivi, dichiarò senz'altro di non poter assecondare l'iniziativa del temerario collega. Il sergente Romano, intanto, rafforzata con nuove reclute la compagnia, esce dal bosco di Pianella in cerca di nuovi trionfi; ma le milizie italiane, rese ormai vigili ed esperte dalla dura esperienza, lo attendono al varco.
LA DISFATTA DELLA MASSERTA MONACI
Sul cadere del primo dicembre, l'intera compagnia si ferma alla masseria dei Monaci di San Domenico, tra Noci ed Alberobello. Erano lì presenti circa centosettanta uomini con tutti i caporioni del brigantaggio salentino e barese: Romano, La Veneziana, Pizzichicchio, Monaco, Valente, Quartulli, Locaso, De Palo ed altri. Il sedicente maggiore ordina alla ciurma di scendere da cavallo e di riposarsi nell'ampio caseggiato, mentre lui, espertissimo dei luoghi, con quaranta seguaci, va in cerca di viveri e foraggi. Molti dei banditi si andavano adagiando nei fienili, ed altri si apprestavano a desinare o attendevano al governo dei cavalli, quando, d'improvviso, la sedicesima Compagnia del decimo Reggimento di Fanteria, condotta dal capitano Molgora, sbuca fuori dalle circostanti macchie e piomba sui masnadieri scompigliati e dispersi. La Veneziana, Pizzichicchio e Valente, chiamati a raccolta i compagni, affrontano i soldati e si battono coraggiosamente in prima linea. Mentre la mischia infuria e la banda già ripiega, sopravviene il Romano, che era atteso con ansia; ma scorto il disordine dei suoi e il sopravvento della truppa, getta via le insegne del comando e, postosi in capo il berretto di un compagno, volge le terga. Alla fuga del condottiero segue una rotta piena ed irreparabile: muore La Veneziana, son feriti Pizzichicchio e Quartulli, cade prigioniero Scipione De Palo con altri nove banditi, e son catturati più di ottanta cavalli con armi e bagagli. Trentacinque briganti, che riposavano in un pagliaio e non presero parte alla zuffa, sfuggirono per miracolo alla cattura; dei restanti, molti, col favore delle tenebre sopraggiunte, se ne andarono - ai loro paesi; altri, dopo essersi aggirati per molte ore fra i boschi, tornarono alla grotta Pianella. Capi e gregari, superstiti di una grave sconfitta, tennero un'adunanza; e dopo una vivace discussione, durante la quale si coprirono di villanie, accusandosi d'imperizia e di viltà, decisero lo scioglimento della comitiva. La sera del 7 dicembre, i vari capi partono per vie diverse: Valente, con sedici o diciassette compagni per Carovigno; Monaco con altrettanti per Ceglie Messapica; il Capraro per Ginosa; e Pizzichicchio, riavutosi dalla ferita, per la Basilicata. Quindici fuoriusciti, avendo espressa la risoluta volontà di abbandonare la masnada, sono dichiarati vili, e quindi licenziati. Il Romano, diminuito di autorità e di grado, resta in quei luoghi con una cinquantina dei più antichi e fedeli proseliti. Era completa la dissoluzione, imminente la fine.
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il fenomeno del brigantaggio
Il brigantaggio politico
Presupposti e limiti della rivoluzione borghese del 1860
di Ciro Pelliccio
Il brigantaggio postunitario presenta delle indubbie peculiarità rispetto alle forme precedenti.
Un primo elemento di differenziazione sostanziale è il forte condizionamento che il fenomeno ha dal crollo del regno, questa volta, a differenza del 1799 e del 1806, irreversibile sotto la spinta di un processo rivoluzionario esterno; un secondo è lo stretto legame che esso ha con il processo d’unificazione guidato dalla destra moderata e le sue profonde ripercussioni sulle strutture politiche e sociali del mezzogiorno, soprattutto quello continentale.
Un terzo elemento è rappresentato dalla profonda crisi economica che il Sud attraversa ormai fin dallo sbarco a Marsala, dovuta alla rapida integrazione di mercati molti diversi strutturalmente e alla stagnazione economica derivante dall’impegno bellico: costituzione di un mercato unico, l’importazione d’inflazione, l’abolizione del protezionismo; tutti errori destinati a provocare forti squilibri economici tra le varie parti dell’Italia, ma soprattutto nell’ex regno delle Due Sicilie. Crisi tanto devastante quanto più va ad inserirsi nella deludente fase della soluzione della questione demaniale.
Per comprendere come il brigantaggio si sviluppa nella grande crisi del 1860-1861, occorre analizzare la reazione delle classi rurali all’avanzare di Garibaldi. Diversa è la reazione tra la Sicilia e il continente, e in quest’ultimo diversissima fra le varie aree geografiche. In Sicilia vi è, nell’immediatezza, un primo e considerevole appoggio del contadiname, che si organizza nelle bande dei «picciotti» guidate dalla borghesia liberale a sua volta egemonizzata dalla potente nobiltà fondiaria, chiaramente annessionista.
Non è, peraltro, estranea la tradizionale ostilità verso il Borbone. Poco dopo la conquista di Palermo però si intravedono i primi elementi della trasformazione del carattere dei moti contadini, che si connota ora in rivendicazioni sansimoniste culminanti nell’episodio della ducea di Bronte in cui si consuma lo strappo definitivo tra il garibaldinismo e la masse contadini. Istanze che non possono peraltro essere recepite da un esercito rivoluzionario composto quasi esclusivamente da settentrionali –democratici o moderati che siano – e che si pone nell’immediato solo l’obiettivo politico di Roma e Venezia. Verso queste istanze é quindi indifferente, ostile, distante per mentalità, stili di vita dai contadini siciliani, tradendo in tal senso la sua composizione medio-borghese.
Nel Mezzogiorno continentale in Calabria, Basilicata, Puglia e i due Principati, si ha una posizione molto simile a quella siciliana: un’attesa iniziale fiduciosa delle classi rurali alimentata dalle promesse dei possidenti. Anche qui il moto viene interpretato come rivendicazione di classe: rivendicazione delle terre usurpate, riaffermazione degli usi civici soppressi. Nelle province a Nord, gli Abruzzi, Terra di Lavoro, Contado di Molise le masse contadine rimangono sostanzialmente fedeli alla dinastia, e danno, di conseguenza, uno scarsissimo appoggio alle truppe di Garibaldi che urtano sempre più sul fronte determinato dall’aggregazione delle bande contadine con truppe regolari borboniche; atteggiamento cui sono spinte proprio in reazione alle insurrezioni provocate dai gruppi liberali delle province.
Nell’ottobre del 1860 interviene l’esercito piemontese con la direttiva fondamentale di riportare l’ordine a Napoli e per il quale appare necessario fermare i garibaldini e spegnere la fiamma insurrezionale: negli ultimi due mesi del ‘60, contro anche il parere di Vittorio Emanuele II e Cavour, il generale Fanti «congeda» tutti i volontari. Molti di questi però sono ormai meridionali, reclutati da elementi della borghesia liberale che hanno progettato un loro inserimento nel futuro quadro politico ed istituzionale del nuovo stato, e la chiara liquidazione cui sono ora sottoposti è interpretata come il rifiuto della destra cavouriana e moderata di collaborare ed accettare una qualsiasi forma d’alleanza con la piccola e media borghesia meridionale che tanto ha fatto contro l’assolutismo borbonico.
La discriminazione antidemocratica spinge il governo di Cavour su posizioni concilianti verso uomini e strutture ex borboniche, riorganizzando su tale principio la stessa Guardia Nazionale, che quale braccio armato della borghesia liberale ha sempre escluso elementi borbonici. E’ evidente la profonda frattura creatasi sul fronte liberale. Questa scelta di moderatezza è quella che forse più influisce sull’atteggiamento della borghesia meridionale complessivamente e che costituirà il fattore politico-militare che agevolerà l’esplosione del brigantaggio.
Intanto alcune scelte impopolari aggravano la situazione materiale dell’ex regno. Una leva di 36.000 uomini è chiamata proprio mentre scoppiano i primi tumulti anti-unitari, con l’effetto di spingere sulle montagne ben 10.000 renitenti. L’oscillante politica dei moderati verso il clero è un altro degli errori d’estrema gravità e carichi di conseguenza sulle vicende successive.
La crisi industriale, il calo della produzione agraria, la stagnazione degli scambi determinata dalla campagna garibaldina, l’importazione dell’inflazione, il protezionismo doganale venuto meno nell’immediato dell’Unità, sono i fattori che più mettono in crisi la struttura sociale del mezzogiorno che subisce rapidi processi di depauperazione nelle classi rurali, operaie e perfino del ceto medio cittadino delle province. Questo contesto economico influisce non poco sulle scelte di adesione al brigantaggio da parte delle classi più povere, spinte dalle ormai sempre più misere condizioni di vita morali e materiali. Perchè mentre nel passato borbonico la sovrappopolazione relativa nelle campagne dovuta a fasi congiunturali negative del ciclo economico veniva assorbita da fenomeni di immigrazione interna o dalla politica di investimenti pubblici, nell’immediato dell’annessione la disoccupazione diventa strutturale e facilita il reclutamento coattivo nelle varie bande di briganti.
E’ il clero però il primo artefice della razione su cui esercita una notevole influenza i decreti anticlericali emessi dal Mancini durante la luogotenenza Carignano, che aboliscono il concordato del 1818 e minacciano la confisca dei beni ecclesiastici. Sebbene mai attuati, spingono il clero in funzione reazionaria. Nell’autunno del 1860 scoppiano i primi moti repressi nel sangue dalla Guardia Nazionale un po’ in tutti i piccoli centri della provincia. Nella primavera del 1861 vi è una recrudescenza del fenomeno che impone al dicastero Ricasoli, successo a Cavour, deceduto nel giugno dello stesso anno, a prendere atto del fallimento della discriminazione antidemocratica, optando per un’opzione militare.
Cialdini attua una inaspettata apertura ai Democratici, nel palese tentativo di costruire un fronte unico con i Moderati contro la reazione. Con i Democratici è possibile accordarsi, per poi eliminare il Partito d’Azione una volta soffocata la reazione. Attua con una certa abilità questa linea, scatena un persecuzione della nobiltà legittimista, istituisce zone militari impiegando truppe regolari che assicurano la sicurezza almeno dei grossi centri abitati e dei maggiori assi viari. Nell’estate del 1861 nuove forze arrivano nelle province meridionali, fino a giungere nel dicembre a 50.000 unità. Nell’autunno i Moderati, che hanno accetto con riserva l’esperimento del fonte unico del Cialdini, optano decisamente per una svolta accentratrice per il pericolo che intravedono nelle minacce al regime unitario.
Le repressioni dell’estate del 1861 portano ad una stasi della situazione che conosce però nell’autunno un nuovo sussulto, in cui si verifica il passaggio dal brigantaggio politico a quello sociale, in cui i legittimisti devono lasciare la guida della reazione alla protesta dei contadini.
La chiusura dell’esperienza del Borjes segna l’inizio del brigantaggio in grande stile che imperverserà fino al 1865 almeno. Grosse bande a cavallo si confrontano militarmente con l’esercito italiano in centinaia di scontri. Emergono capibanda tutti contadini, per lo più salariati o ex soldati borbonici: Tamburini e Pastore in Abruzzo, Centrillo sulle Mainarde, Chiavone nel sorano, Guerra e Fuoco in Terra di Lavoro, Giordano nel matese, i fratelli La Gala in Irpinia, il sergente Romano nel barese, Crocco, Ninco Nanco ed altri fra Basilicata, Capitanata e Molise. Gli scontri diventano sempre più numerosi. Il generale Franzini denuncia 111 scontri nei solo dieci mesi del 1862 nell’ avellinese.
Nel novembre del 1863 il giornale milanese “La Perseveranza” pubblica una corrispondenza da Napoli nella quale si afferma, sulla base dei dati forniti dal VI Gran Comando, che ogni giorno arrivano da 60 a 100 rapporti su fatti di brigantaggio. Dinnanzi ad un fenomeno di così vasta scala la classe politica si divise: i Moderati, cercarono di minimizzarlo, se non nasconderlo, limitandosi ad indicare nella presenza di Francesco II a Roma l’origine del problema chiedendone un allontanamento; la Sinistra intraprende una battaglia aspra in sede parlamentare, sia pur nei limiti prevalentemente politici di non vanificare l’ Unità appena raggiunta.
L’esercito appare sempre più il protagonista della lotta che coinvolge tutto l’ex regno. Anni dopo, il Settembrini scrisse che l’esercito era «il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita». Il generale Mazè de la Roche, comandante della zona militare del Molise, scrive già nel 1861: «Nel distretto sono sindaco, giudice, comandante dei carabinieri esercito un’autorità quasi assoluta su una quindicina di comuni tra cui vi è un capoluogo di provincia col suo governatore».
Nel febbraio del 1864 nel Mezzogiorno continentale sono di stanza 116.000 uomini, sottoposti ad un logorio ed un’usura che poteva compromettere l’intero esercito. Pertanto, dopo la fine dello stato d’assedio diventa improcrastinabile per Esercito e Governo lanciare l’offensiva definitiva contro il brigantaggio. I prodromi si hanno con l’arrivo di Minghetti, che ha Spaventa a capo della polizia e Peruzzi al ministero dell’Interno. Spaventa nel dicembre del 1862 scrive: «Distruggere radicalmente e presto il brigantaggio nel Napoletano o condannarsi a perire».
L’intenzione è di istituire tribunali militari per i briganti e i complici, mobilitazione della Guardia Nazionale, potenziamento della Polizia e dei Carabinieri, soldo regolare e pensioni ai repressori. L’introduzione della Legge Pica nell’Agosto del 1863 rappresenterà la sanzione giuridica ad una prassi repressiva già da tempo in atto. I tribunali militari svolgono il loro compito celebrando circa 3.600 processi solo fra il ‘63 e il ‘64 e giudicando 10.000 persone, di cui oltre 6.000 sono contadini. Nella sola Basilicata, il Racioppi parla di 2.400 arresti nei primi sei mesi di applicazione della legge. Si parla di altri 12.000 arresti e deportazioni nelle isole.
L’artefice della soppressione definitiva del brigantaggio è il Pallavicini che usa una tattica di «persecuzione incessante» che, pur costando all’esercito un forte logoramento, ottiene il risultato sperato. Verso la fine del 1863 sconfigge la banda di Michele Caruso; nel 1864 quella di Crocco. Fra il 1860 e il 1865 il grande brigantaggio con più forte connotazione politica, fu battuto sul piano militare. Dopo il 1865 il fenomeno restò diffuso, con un’impennata nel 1867, ma privo delle motivazione politico-insurrezionale e oggetto ormai di sola repressione poliziesca.
Il brigantaggio e la sua repressione appaino forse i limiti più evidenti dell’intera rivoluzione borghese italiana: il Risorgimento. L’interesse storiografico sul fenomeno riflette immancabilmente posizioni ideologiche e politiche divergenti. Appare eccessivamente riduttivo l’interpretazione conservatrice che tende a descrivere e circoscrivere il fenomeno come di matrice esclusivamente delinquenziale ma neppure appiano condivisibili le interpretazioni di una certa Sinistra che vuole conferire al brigantaggio un contenuto anticapitalistico, o comunque antiborghese, maggiore di quanto ne abbia in realtà.
Questa vede nei contadini un’avanguardia rivoluzionaria o, quantomeno, un tentativo alternativo di formazione della società italiana in opposizione alla Destra moderata e borghese.
Questa analisi presuppone una coscienza di classe e una diffusa consapevolezza di massa che non può esistere. Interpretazioni di questo genere riflettono suggestioni populistiche o anarcoideggianti che idealizzando la spontaneità delle classi subalterne. E’ utile, invece, concentrare l’analisi su due problematiche di fondo del brigantaggio postunitario: il carattere di classe e l’impatto che ha sulla crisi della società meridionale, e quindi sul processo di formazione e consolidamento dello Stato Unitario. Il primo aspetto è pacificamente riscontrabile nella composizione sociale delle stesse bande dove tutta la base, la gerarchia intermedia e quella apicale appartiene ai ceti contadini.
L’estrema povertà, la mancanza assoluta di una qualsiasi proprietà o di forme di condivisione della rendita agraria, predispongono i ceti rurali alle coercizione extraeconomica della stessa rendita. Per il secondo aspetto, si può senz’altro notare come il fenomeno ha consensi, ampi, in parte occulti, dagli strati semiproletari e poveri delle campagne: fittavoli, coloni, piccoli proprietari parcellari. Questo appoggio rende possibile l’esistenza e il risorgere del brigantaggio anche dopo colpi che sembrano letali, poiché alimenta di continuo le bande.
Questo appoggio, peraltro, trova origine dal malcontento per lo sfruttamento diretti dei ceti proprietari e dal tipo di soluzione che questi stanno dando all’annosa questione demaniale. L’influenza degli sviluppi storici della questione demaniale e delle soluzioni che vanno a adottarsi, e la sua connessione con il brigantaggio è così palesi da non sfuggire agli stessi contemporanei: il Massari, superficialmente; più acutamente il Saffi. La questione demaniale protrattasi per tutta la metà del secolo, costituisce un fattore importante nella trasformazione dei rapporti di proprietà nella campagna dove però i rapporti di produzione in agricoltura rimangono alla stato ancora feudale.
Le forze politico-sociali promotrici sono la monarchia (i napoleonici prima e i Borbone dopo) che tendono a riportare i rapporti sociali, politici ed economici sotto il controllo di uno stato centralizzato; dall’altro una nascente borghesia fondiaria che aspira a ricondurre la proprietà terriera sotto il diritto comune. Ma nel 1860, dopo oltre 50 anni di operazioni demaniali, risultano distribuiti solo 116.264 quote per 205.988 ettari, e la maggior parte di esse sono ripassate nelle mani dei ceti possidenti. Tuttavia il liet motiv della quotizzazioni, anche quando espressione della piccola e media borghesia, è un indubbio strumento politico perché dirotta le pretese delle classi rurali solo sui terreni demaniali, e nell’incanalare la loro lotta sul solo terreno della legalità, impedisce la formazione di un «comunismo agrario» che avrebbe avuto quale obiettivo la completa espropriazione e ridistribuzione della rendita agraria.
I briganti non furono tutti partigiani del re, nè furono tutti banditi di strada, pur tuttavia è singolare come le due diverse anime siano convissute a volte nella stessa persona, tant’è che molti provenivano dall’esercito garibaldino; sicché molti furono briganti e partigiani insieme. Vi era inoltre un folto numero di essi che, giovani e meno giovani, vivevano al limite delle legalità. D’altronde al Sud occorreva davvero poco, per gli appartenenti alle classi meno abbienti, diventare fuorilegge. La durezza della vita, la scarsa elasticità del sistema, la costellazione di abusi, sfornavano tecnicamente molti delinquenti.
C’era quindi un’aspirazione diffusa al rientro all’ordine e molti videro nella risalita del Garibaldi la possibilità di riabilitarsi; ma ben presto furono delusi .Questa esperienza rimane tuttavia importante perché senza l’esempio delle camicie rosse, il proletariato rurale non avrebbe mai preso appieno coscienza delle prospettive che potevano loro schiudersi nel far parte di un gruppo armato. Lo capì perfettamente Torino che cercò subito di disinnescare la bomba garibaldina sciogliendo l’esercito. Il regime borbonico non era esattamente «la negazione di Dio eretta a sistema» tanto cara al Lord Gladstone, ma rimaneva tuttavia un refuso della vecchia Europa in via di dissoluzione. Il sostegno della classe media, nerbo di ogni sistema moderno, non ci fu al momento di crisi del regno. Anzi la parte più liberale si affrettò a decretarne la fine perché si ispirava a modelli culturali e politici che i Borbone non avevano mai preso in considerazione. Furono le avanguardie di questi a indurre in errore i Piemontesi.
I fuoriusciti che vivevano in Piemonte non erano attendibili e l’errore più grande che fecero fu quello di spargere la voce dell’arcadia meridionale. Un regno ricco di risorse e di terre fertili che in realtà non esistevano. Essi appartenevano tutti alla classe più colta, che si era formata nella capitale, che non conosceva assolutamente la vita nelle province. Ritenevano che sarebbe bastato qualche riforma liberale e un poco di lavori pubblici per integrare i due stati e le due economie. Non parlarono del baratro d’odio che divideva i galantuomini dai contadini; non parlarono della miserevole vita delle classi rurali e della violenza che generava; non parlarono della lacerazione di ogni tipo di rapporto sociale.
Così i piemontesi bevvero il racconto dei fuoriusciti, anche perchè non disponevano di informazioni di prima mano.
Calcoli politici elementari, disinformazione, faciloneria politica fecero sì che l’incontro tra le due Italie si risolvesse nell’amarezza delle delusioni incrociate e il brigantaggio fu il primo frutto di queste delusioni. Anche i galantuomini di sicura fede unitaria, rimasero delusi: speravano in un matrimonio, assistettero ad uno stupro.
I piemontesi si aspettavano essere accolti con i fiori e le fanfare, invece furono accolti a fucilate; i contadini si aspettavano un miglioramento delle proprie condizioni di vita, trovarono il plotone di esecuzione. S’erano aspettate campagne ricche e trovarono una massa di cafoni poveri, da cui trassero questo convincimento: il paese è ricco di risorse e questi sono poveri, vuol dire che non hanno voglia di lavorare; ma impareranno presto! Da qui alla logica del plotone di esecuzione come strumento pedagogico, il passo fu breve.
Le forze che si contrapposero furono notevoli. Nel 1862 vi erano nell’ex regno 52 reggimenti per oltre 120.000 uomini, 83.927 uomini della Guardia Nazionale, 7.489 carabinieri che si opponevano a 135-140.000 componenti le varie bande.
Il bilancio della “rivoluzione italiana” fu drammatico. Non esistono cifre precise, ma quelle più accreditate danno, dal 1861 al 1870, 123.860 fucilati, 130.364 feriti, 43.629 deportati, 41 paesi completamente distrutti; 10.760 briganti condannati all’ergastolo, 382.637 briganti condannati a pene varie. Da parte piemontese le perdite ammontarono a 21.120 soldati caduti in combattimento, 1.073 morti per malaria o malattie o ferite, 820 dispersi.
Riferimenti bibliografici:
lMarco Monnier Il Brigantaggio nelle provincie napoletane, - Arturo Berisio Editore -1965
Pasquale Soccio, Unità e brigantaggio, Edizioni scientifiche italiane
Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, I duecento drammatici giorni della fedelissima Civitella del Tronto, Editrice “ La perseveranza”
Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, Morire a Civitella del Tronto, Editrice “la Perseveranza”
Luisa Basile e Delia Morea, I briganti napoletani, Editrice newton
Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi editore
Bianco di Saint Joriz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 11860 al 1864, Milano, Daelli, 1864, Forni Editore
Coppini, Storia politico militare del brigantaggio nelle province meridionali d’italia, Firenze 1884, Forni editore
Denis Mack Smith, Garibaldi una grande vita in breve, Mondadori editore, 1993
Don Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Bompiani Editore 1985
Aldo De Jaco, Il brigantaggio Meridionale, Ed. Riuniti, 1979
Presupposti e limiti della rivoluzione borghese del 1860
di Ciro Pelliccio
Il brigantaggio postunitario presenta delle indubbie peculiarità rispetto alle forme precedenti.
Un primo elemento di differenziazione sostanziale è il forte condizionamento che il fenomeno ha dal crollo del regno, questa volta, a differenza del 1799 e del 1806, irreversibile sotto la spinta di un processo rivoluzionario esterno; un secondo è lo stretto legame che esso ha con il processo d’unificazione guidato dalla destra moderata e le sue profonde ripercussioni sulle strutture politiche e sociali del mezzogiorno, soprattutto quello continentale.
Un terzo elemento è rappresentato dalla profonda crisi economica che il Sud attraversa ormai fin dallo sbarco a Marsala, dovuta alla rapida integrazione di mercati molti diversi strutturalmente e alla stagnazione economica derivante dall’impegno bellico: costituzione di un mercato unico, l’importazione d’inflazione, l’abolizione del protezionismo; tutti errori destinati a provocare forti squilibri economici tra le varie parti dell’Italia, ma soprattutto nell’ex regno delle Due Sicilie. Crisi tanto devastante quanto più va ad inserirsi nella deludente fase della soluzione della questione demaniale.
Per comprendere come il brigantaggio si sviluppa nella grande crisi del 1860-1861, occorre analizzare la reazione delle classi rurali all’avanzare di Garibaldi. Diversa è la reazione tra la Sicilia e il continente, e in quest’ultimo diversissima fra le varie aree geografiche. In Sicilia vi è, nell’immediatezza, un primo e considerevole appoggio del contadiname, che si organizza nelle bande dei «picciotti» guidate dalla borghesia liberale a sua volta egemonizzata dalla potente nobiltà fondiaria, chiaramente annessionista.
Non è, peraltro, estranea la tradizionale ostilità verso il Borbone. Poco dopo la conquista di Palermo però si intravedono i primi elementi della trasformazione del carattere dei moti contadini, che si connota ora in rivendicazioni sansimoniste culminanti nell’episodio della ducea di Bronte in cui si consuma lo strappo definitivo tra il garibaldinismo e la masse contadini. Istanze che non possono peraltro essere recepite da un esercito rivoluzionario composto quasi esclusivamente da settentrionali –democratici o moderati che siano – e che si pone nell’immediato solo l’obiettivo politico di Roma e Venezia. Verso queste istanze é quindi indifferente, ostile, distante per mentalità, stili di vita dai contadini siciliani, tradendo in tal senso la sua composizione medio-borghese.
Nel Mezzogiorno continentale in Calabria, Basilicata, Puglia e i due Principati, si ha una posizione molto simile a quella siciliana: un’attesa iniziale fiduciosa delle classi rurali alimentata dalle promesse dei possidenti. Anche qui il moto viene interpretato come rivendicazione di classe: rivendicazione delle terre usurpate, riaffermazione degli usi civici soppressi. Nelle province a Nord, gli Abruzzi, Terra di Lavoro, Contado di Molise le masse contadine rimangono sostanzialmente fedeli alla dinastia, e danno, di conseguenza, uno scarsissimo appoggio alle truppe di Garibaldi che urtano sempre più sul fronte determinato dall’aggregazione delle bande contadine con truppe regolari borboniche; atteggiamento cui sono spinte proprio in reazione alle insurrezioni provocate dai gruppi liberali delle province.
Nell’ottobre del 1860 interviene l’esercito piemontese con la direttiva fondamentale di riportare l’ordine a Napoli e per il quale appare necessario fermare i garibaldini e spegnere la fiamma insurrezionale: negli ultimi due mesi del ‘60, contro anche il parere di Vittorio Emanuele II e Cavour, il generale Fanti «congeda» tutti i volontari. Molti di questi però sono ormai meridionali, reclutati da elementi della borghesia liberale che hanno progettato un loro inserimento nel futuro quadro politico ed istituzionale del nuovo stato, e la chiara liquidazione cui sono ora sottoposti è interpretata come il rifiuto della destra cavouriana e moderata di collaborare ed accettare una qualsiasi forma d’alleanza con la piccola e media borghesia meridionale che tanto ha fatto contro l’assolutismo borbonico.
La discriminazione antidemocratica spinge il governo di Cavour su posizioni concilianti verso uomini e strutture ex borboniche, riorganizzando su tale principio la stessa Guardia Nazionale, che quale braccio armato della borghesia liberale ha sempre escluso elementi borbonici. E’ evidente la profonda frattura creatasi sul fronte liberale. Questa scelta di moderatezza è quella che forse più influisce sull’atteggiamento della borghesia meridionale complessivamente e che costituirà il fattore politico-militare che agevolerà l’esplosione del brigantaggio.
Intanto alcune scelte impopolari aggravano la situazione materiale dell’ex regno. Una leva di 36.000 uomini è chiamata proprio mentre scoppiano i primi tumulti anti-unitari, con l’effetto di spingere sulle montagne ben 10.000 renitenti. L’oscillante politica dei moderati verso il clero è un altro degli errori d’estrema gravità e carichi di conseguenza sulle vicende successive.
La crisi industriale, il calo della produzione agraria, la stagnazione degli scambi determinata dalla campagna garibaldina, l’importazione dell’inflazione, il protezionismo doganale venuto meno nell’immediato dell’Unità, sono i fattori che più mettono in crisi la struttura sociale del mezzogiorno che subisce rapidi processi di depauperazione nelle classi rurali, operaie e perfino del ceto medio cittadino delle province. Questo contesto economico influisce non poco sulle scelte di adesione al brigantaggio da parte delle classi più povere, spinte dalle ormai sempre più misere condizioni di vita morali e materiali. Perchè mentre nel passato borbonico la sovrappopolazione relativa nelle campagne dovuta a fasi congiunturali negative del ciclo economico veniva assorbita da fenomeni di immigrazione interna o dalla politica di investimenti pubblici, nell’immediato dell’annessione la disoccupazione diventa strutturale e facilita il reclutamento coattivo nelle varie bande di briganti.
E’ il clero però il primo artefice della razione su cui esercita una notevole influenza i decreti anticlericali emessi dal Mancini durante la luogotenenza Carignano, che aboliscono il concordato del 1818 e minacciano la confisca dei beni ecclesiastici. Sebbene mai attuati, spingono il clero in funzione reazionaria. Nell’autunno del 1860 scoppiano i primi moti repressi nel sangue dalla Guardia Nazionale un po’ in tutti i piccoli centri della provincia. Nella primavera del 1861 vi è una recrudescenza del fenomeno che impone al dicastero Ricasoli, successo a Cavour, deceduto nel giugno dello stesso anno, a prendere atto del fallimento della discriminazione antidemocratica, optando per un’opzione militare.
Cialdini attua una inaspettata apertura ai Democratici, nel palese tentativo di costruire un fronte unico con i Moderati contro la reazione. Con i Democratici è possibile accordarsi, per poi eliminare il Partito d’Azione una volta soffocata la reazione. Attua con una certa abilità questa linea, scatena un persecuzione della nobiltà legittimista, istituisce zone militari impiegando truppe regolari che assicurano la sicurezza almeno dei grossi centri abitati e dei maggiori assi viari. Nell’estate del 1861 nuove forze arrivano nelle province meridionali, fino a giungere nel dicembre a 50.000 unità. Nell’autunno i Moderati, che hanno accetto con riserva l’esperimento del fonte unico del Cialdini, optano decisamente per una svolta accentratrice per il pericolo che intravedono nelle minacce al regime unitario.
Le repressioni dell’estate del 1861 portano ad una stasi della situazione che conosce però nell’autunno un nuovo sussulto, in cui si verifica il passaggio dal brigantaggio politico a quello sociale, in cui i legittimisti devono lasciare la guida della reazione alla protesta dei contadini.
La chiusura dell’esperienza del Borjes segna l’inizio del brigantaggio in grande stile che imperverserà fino al 1865 almeno. Grosse bande a cavallo si confrontano militarmente con l’esercito italiano in centinaia di scontri. Emergono capibanda tutti contadini, per lo più salariati o ex soldati borbonici: Tamburini e Pastore in Abruzzo, Centrillo sulle Mainarde, Chiavone nel sorano, Guerra e Fuoco in Terra di Lavoro, Giordano nel matese, i fratelli La Gala in Irpinia, il sergente Romano nel barese, Crocco, Ninco Nanco ed altri fra Basilicata, Capitanata e Molise. Gli scontri diventano sempre più numerosi. Il generale Franzini denuncia 111 scontri nei solo dieci mesi del 1862 nell’ avellinese.
Nel novembre del 1863 il giornale milanese “La Perseveranza” pubblica una corrispondenza da Napoli nella quale si afferma, sulla base dei dati forniti dal VI Gran Comando, che ogni giorno arrivano da 60 a 100 rapporti su fatti di brigantaggio. Dinnanzi ad un fenomeno di così vasta scala la classe politica si divise: i Moderati, cercarono di minimizzarlo, se non nasconderlo, limitandosi ad indicare nella presenza di Francesco II a Roma l’origine del problema chiedendone un allontanamento; la Sinistra intraprende una battaglia aspra in sede parlamentare, sia pur nei limiti prevalentemente politici di non vanificare l’ Unità appena raggiunta.
L’esercito appare sempre più il protagonista della lotta che coinvolge tutto l’ex regno. Anni dopo, il Settembrini scrisse che l’esercito era «il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita». Il generale Mazè de la Roche, comandante della zona militare del Molise, scrive già nel 1861: «Nel distretto sono sindaco, giudice, comandante dei carabinieri esercito un’autorità quasi assoluta su una quindicina di comuni tra cui vi è un capoluogo di provincia col suo governatore».
Nel febbraio del 1864 nel Mezzogiorno continentale sono di stanza 116.000 uomini, sottoposti ad un logorio ed un’usura che poteva compromettere l’intero esercito. Pertanto, dopo la fine dello stato d’assedio diventa improcrastinabile per Esercito e Governo lanciare l’offensiva definitiva contro il brigantaggio. I prodromi si hanno con l’arrivo di Minghetti, che ha Spaventa a capo della polizia e Peruzzi al ministero dell’Interno. Spaventa nel dicembre del 1862 scrive: «Distruggere radicalmente e presto il brigantaggio nel Napoletano o condannarsi a perire».
L’intenzione è di istituire tribunali militari per i briganti e i complici, mobilitazione della Guardia Nazionale, potenziamento della Polizia e dei Carabinieri, soldo regolare e pensioni ai repressori. L’introduzione della Legge Pica nell’Agosto del 1863 rappresenterà la sanzione giuridica ad una prassi repressiva già da tempo in atto. I tribunali militari svolgono il loro compito celebrando circa 3.600 processi solo fra il ‘63 e il ‘64 e giudicando 10.000 persone, di cui oltre 6.000 sono contadini. Nella sola Basilicata, il Racioppi parla di 2.400 arresti nei primi sei mesi di applicazione della legge. Si parla di altri 12.000 arresti e deportazioni nelle isole.
L’artefice della soppressione definitiva del brigantaggio è il Pallavicini che usa una tattica di «persecuzione incessante» che, pur costando all’esercito un forte logoramento, ottiene il risultato sperato. Verso la fine del 1863 sconfigge la banda di Michele Caruso; nel 1864 quella di Crocco. Fra il 1860 e il 1865 il grande brigantaggio con più forte connotazione politica, fu battuto sul piano militare. Dopo il 1865 il fenomeno restò diffuso, con un’impennata nel 1867, ma privo delle motivazione politico-insurrezionale e oggetto ormai di sola repressione poliziesca.
Il brigantaggio e la sua repressione appaino forse i limiti più evidenti dell’intera rivoluzione borghese italiana: il Risorgimento. L’interesse storiografico sul fenomeno riflette immancabilmente posizioni ideologiche e politiche divergenti. Appare eccessivamente riduttivo l’interpretazione conservatrice che tende a descrivere e circoscrivere il fenomeno come di matrice esclusivamente delinquenziale ma neppure appiano condivisibili le interpretazioni di una certa Sinistra che vuole conferire al brigantaggio un contenuto anticapitalistico, o comunque antiborghese, maggiore di quanto ne abbia in realtà.
Questa vede nei contadini un’avanguardia rivoluzionaria o, quantomeno, un tentativo alternativo di formazione della società italiana in opposizione alla Destra moderata e borghese.
Questa analisi presuppone una coscienza di classe e una diffusa consapevolezza di massa che non può esistere. Interpretazioni di questo genere riflettono suggestioni populistiche o anarcoideggianti che idealizzando la spontaneità delle classi subalterne. E’ utile, invece, concentrare l’analisi su due problematiche di fondo del brigantaggio postunitario: il carattere di classe e l’impatto che ha sulla crisi della società meridionale, e quindi sul processo di formazione e consolidamento dello Stato Unitario. Il primo aspetto è pacificamente riscontrabile nella composizione sociale delle stesse bande dove tutta la base, la gerarchia intermedia e quella apicale appartiene ai ceti contadini.
L’estrema povertà, la mancanza assoluta di una qualsiasi proprietà o di forme di condivisione della rendita agraria, predispongono i ceti rurali alle coercizione extraeconomica della stessa rendita. Per il secondo aspetto, si può senz’altro notare come il fenomeno ha consensi, ampi, in parte occulti, dagli strati semiproletari e poveri delle campagne: fittavoli, coloni, piccoli proprietari parcellari. Questo appoggio rende possibile l’esistenza e il risorgere del brigantaggio anche dopo colpi che sembrano letali, poiché alimenta di continuo le bande.
Questo appoggio, peraltro, trova origine dal malcontento per lo sfruttamento diretti dei ceti proprietari e dal tipo di soluzione che questi stanno dando all’annosa questione demaniale. L’influenza degli sviluppi storici della questione demaniale e delle soluzioni che vanno a adottarsi, e la sua connessione con il brigantaggio è così palesi da non sfuggire agli stessi contemporanei: il Massari, superficialmente; più acutamente il Saffi. La questione demaniale protrattasi per tutta la metà del secolo, costituisce un fattore importante nella trasformazione dei rapporti di proprietà nella campagna dove però i rapporti di produzione in agricoltura rimangono alla stato ancora feudale.
Le forze politico-sociali promotrici sono la monarchia (i napoleonici prima e i Borbone dopo) che tendono a riportare i rapporti sociali, politici ed economici sotto il controllo di uno stato centralizzato; dall’altro una nascente borghesia fondiaria che aspira a ricondurre la proprietà terriera sotto il diritto comune. Ma nel 1860, dopo oltre 50 anni di operazioni demaniali, risultano distribuiti solo 116.264 quote per 205.988 ettari, e la maggior parte di esse sono ripassate nelle mani dei ceti possidenti. Tuttavia il liet motiv della quotizzazioni, anche quando espressione della piccola e media borghesia, è un indubbio strumento politico perché dirotta le pretese delle classi rurali solo sui terreni demaniali, e nell’incanalare la loro lotta sul solo terreno della legalità, impedisce la formazione di un «comunismo agrario» che avrebbe avuto quale obiettivo la completa espropriazione e ridistribuzione della rendita agraria.
I briganti non furono tutti partigiani del re, nè furono tutti banditi di strada, pur tuttavia è singolare come le due diverse anime siano convissute a volte nella stessa persona, tant’è che molti provenivano dall’esercito garibaldino; sicché molti furono briganti e partigiani insieme. Vi era inoltre un folto numero di essi che, giovani e meno giovani, vivevano al limite delle legalità. D’altronde al Sud occorreva davvero poco, per gli appartenenti alle classi meno abbienti, diventare fuorilegge. La durezza della vita, la scarsa elasticità del sistema, la costellazione di abusi, sfornavano tecnicamente molti delinquenti.
C’era quindi un’aspirazione diffusa al rientro all’ordine e molti videro nella risalita del Garibaldi la possibilità di riabilitarsi; ma ben presto furono delusi .Questa esperienza rimane tuttavia importante perché senza l’esempio delle camicie rosse, il proletariato rurale non avrebbe mai preso appieno coscienza delle prospettive che potevano loro schiudersi nel far parte di un gruppo armato. Lo capì perfettamente Torino che cercò subito di disinnescare la bomba garibaldina sciogliendo l’esercito. Il regime borbonico non era esattamente «la negazione di Dio eretta a sistema» tanto cara al Lord Gladstone, ma rimaneva tuttavia un refuso della vecchia Europa in via di dissoluzione. Il sostegno della classe media, nerbo di ogni sistema moderno, non ci fu al momento di crisi del regno. Anzi la parte più liberale si affrettò a decretarne la fine perché si ispirava a modelli culturali e politici che i Borbone non avevano mai preso in considerazione. Furono le avanguardie di questi a indurre in errore i Piemontesi.
I fuoriusciti che vivevano in Piemonte non erano attendibili e l’errore più grande che fecero fu quello di spargere la voce dell’arcadia meridionale. Un regno ricco di risorse e di terre fertili che in realtà non esistevano. Essi appartenevano tutti alla classe più colta, che si era formata nella capitale, che non conosceva assolutamente la vita nelle province. Ritenevano che sarebbe bastato qualche riforma liberale e un poco di lavori pubblici per integrare i due stati e le due economie. Non parlarono del baratro d’odio che divideva i galantuomini dai contadini; non parlarono della miserevole vita delle classi rurali e della violenza che generava; non parlarono della lacerazione di ogni tipo di rapporto sociale.
Così i piemontesi bevvero il racconto dei fuoriusciti, anche perchè non disponevano di informazioni di prima mano.
Calcoli politici elementari, disinformazione, faciloneria politica fecero sì che l’incontro tra le due Italie si risolvesse nell’amarezza delle delusioni incrociate e il brigantaggio fu il primo frutto di queste delusioni. Anche i galantuomini di sicura fede unitaria, rimasero delusi: speravano in un matrimonio, assistettero ad uno stupro.
I piemontesi si aspettavano essere accolti con i fiori e le fanfare, invece furono accolti a fucilate; i contadini si aspettavano un miglioramento delle proprie condizioni di vita, trovarono il plotone di esecuzione. S’erano aspettate campagne ricche e trovarono una massa di cafoni poveri, da cui trassero questo convincimento: il paese è ricco di risorse e questi sono poveri, vuol dire che non hanno voglia di lavorare; ma impareranno presto! Da qui alla logica del plotone di esecuzione come strumento pedagogico, il passo fu breve.
Le forze che si contrapposero furono notevoli. Nel 1862 vi erano nell’ex regno 52 reggimenti per oltre 120.000 uomini, 83.927 uomini della Guardia Nazionale, 7.489 carabinieri che si opponevano a 135-140.000 componenti le varie bande.
Il bilancio della “rivoluzione italiana” fu drammatico. Non esistono cifre precise, ma quelle più accreditate danno, dal 1861 al 1870, 123.860 fucilati, 130.364 feriti, 43.629 deportati, 41 paesi completamente distrutti; 10.760 briganti condannati all’ergastolo, 382.637 briganti condannati a pene varie. Da parte piemontese le perdite ammontarono a 21.120 soldati caduti in combattimento, 1.073 morti per malaria o malattie o ferite, 820 dispersi.
Riferimenti bibliografici:
lMarco Monnier Il Brigantaggio nelle provincie napoletane, - Arturo Berisio Editore -1965
Pasquale Soccio, Unità e brigantaggio, Edizioni scientifiche italiane
Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, I duecento drammatici giorni della fedelissima Civitella del Tronto, Editrice “ La perseveranza”
Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, Morire a Civitella del Tronto, Editrice “la Perseveranza”
Luisa Basile e Delia Morea, I briganti napoletani, Editrice newton
Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi editore
Bianco di Saint Joriz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 11860 al 1864, Milano, Daelli, 1864, Forni Editore
Coppini, Storia politico militare del brigantaggio nelle province meridionali d’italia, Firenze 1884, Forni editore
Denis Mack Smith, Garibaldi una grande vita in breve, Mondadori editore, 1993
Don Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Bompiani Editore 1985
Aldo De Jaco, Il brigantaggio Meridionale, Ed. Riuniti, 1979
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